Chronophage. La prima volta che ho sentito questa parola è stato quando una mia collega di dottorato francese l’ha usata per descrivere una serie di attività collaterali alla ricerca – quella sì strettamente utile a uno scopo, ovvero la redazione della tesi – che avevano la caratteristica di togliere tempo. Chronophage. Bella, questa parola. “Ma esiste in italiano?” Pensai. No, almeno non mi pare. Per tradurla è necessario ricorrere a delle perifrasi che però mi lasciano insoddisfatta. Dispendioso in termini di tempo, che richiede troppo tempo, lungo e oneroso… nessuna di queste espressioni, infatti, mette l’accento su ciò che veramente conta. E cioè che esistono delle cose che mangiano il tempo, lo divorano, lo riducono in briciole, in frammenti sparsi, cose che ingurgitano il nostro tempo, lo fanno fuori.
Chronophage. Un’attività tanto banale quanto diffusa, che può fregiarsi pienamente di questo titolo, è la fotografia. La fotografia in generale, sì, quella con la F maiuscola, e non solo perché qualcuno ha detto che essa è l’istante decisivo. L’otturatore, click!, morde il tempo, lasciandocene delle briciole, a noi che speriamo così di tenercelo stretto, di conservarlo, per assaporarlo poi nel ricordo, per mangiucchiare la storia o per rifocillarci e sfamarci, quando, mai sazi di ripercorrere e sbirciare le nostre e le altrui vite, piluccheremo qua e là, dai nostri cassetti, dalle vecchie scatole o dalla galleria di immagini dei nostri cellulari.
Mangiare con gli occhi: ecco cosa fa la fotografia ed ecco qual è la sua portata rivoluzionaria. Se, come osserva Carlo Ginzburg, la fotografia, come la prospettiva lineare prima di lei, ha aperto “una serie di possibilità cognitive: un nuovo modo di vedere, di raccontare e di pensare”, tra le novità più importanti da essa introdotte c’è anche un nuovo modo di relazionarsi col tempo. O di mangiarselo piuttosto.
Ma in che senso?
Lo storico francese François Hartog ha
definito “presentista” il modo in cui la nostra epoca si situa rispetto
alla temporalità storica. Presentista è un regime di storicità, un
rapporto col tempo in cui vige “la tirannia del presente”, dell’istante,
un presente onnipresente che è l’unico orizzonte possibile, l’unica
attualità, persino l’unica storia, poiché il presente presentista guarda
se stesso “come se fosse già storia”.
Il presentismo mangia il tempo, o meglio lo divora e lo consuma per
mezzo di strumenti che lo “comprimono” e che proprio mentre comprimono,
contribuiscono all’instaurazione e al mantenimento di questo regime di
storicità. “L’economia mediatica del presente – scrive Hartog – non
smette di produrre e di consumare l’evento […]. Il presente, nel momento
stesso in cui si svolge, desidera guardarsi come se fosse già storia,
come se appartenesse già al passato”, anticipando e prevedendo in tal
modo – ovvero determinando – lo sguardo che si porterà su di esso: “Ma
questo sguardo è quello che lo stesso presente rivolge a se stesso”.
I media, i mille occhi della nostra epoca, sono dunque strumenti presentisti, strumenti di façonnage
del tempo, di sagomatura, di foggiatura. La fotografia in questo senso
dunque mangia il tempo, lo mastica e lo sputa, lo cattura e gli
conferisce una forma.
Chronophage dunque è la nostra epoca, così come il suo rapporto presentista col tempo. Chronophage e presentista, proprio la fotografia lo è massimamente, poiché – dicevamo – essa produce e consuma il tempo. Quando “tra il vedere il far vedere ormai c’è solo la distanza di un click”, come osserva sempre Hartog, noi forgiamo il tempo delle nostre vite social come presentissimo ed effimero, lo produciamo e lo consumiamo nella condivisione dell’evento.
Quotidianamente, tramite Instagram, noi
spilluzzichiamo continuamente il tempo delle nostre vite. Instagram,
primo mass-medium poetico secondo Lev Manovich. Instagram “un modo
semplice per catturare e condividere gli istanti della vita”, secondo la
presentazione dell’applicazione. Instagram, che ormai da qualche tempo
propone una gallery accessibile solo online (a meno di scaricare app
aggiuntive), perché Instagram è fatto per condividere l’attimo, non per
conservare una memoria delle cose viste e filtrate secondo l’umore, il mood come dice Manovich, di quel momento.
L’attitudine adottata da Instagram con gli ultimi aggiornamenti sembra
quella di “Spingere il presentismo fino al suo limite estremo!”, come
scrive Hartog verso la fine del suo libro, e aumentare ellitticamente la
cronofagia propria alla fotografia istantanea. Le “Instagram stories” e
lo strumento “Boomerang” sono le ultime novità che indicano una virata
dell’applicazione verso una maggiore esaltazione dell’attimo.
L’istantaneità – che porta con sé i valori di autenticità e trasparenza
(#nofilter) – è del resto la cifra di Instagram, come il nome lascia
intuire, l’applicazione che ha trasformato il nostro cellulare in
macchina fotografica, facendo di quest’ultima un medium onnivoro e non
solo cronofago, in grado di parassitare e di installarsi in un altro medium, il telefono, surriscaldandolo, per parlare con McLuhan.
Le “Instagram stories” sono dei post
effimeri, foto o filmati da 15 secondi al massimo, che esisteranno in
linea, visibili scorrendo una timeline orizzontale, per 24 ore al
massimo (basta con la preoccupazione per l’abbondanza di post, dicono da
Instagram, anche se si possono accumulare stories in sequenza).
Boomerang è un’estensione dell’applicazione che consente di realizzare
brevissimi video di 4 secondi, composti a partire da una sequenza di
fotografie, che riproducono in loop un movimento che si sviluppa e si
riavvolge, che ritorna su stesso come, appunto, un boomerang (l’icona
dell’estensione è significativamente il simbolo matematico
dell’infinito, l’otto adagiato).
L’unione combinata delle due risorse di Instagram – possibile e molto sfruttata – ci fornisce un perfetto strumento presentista: una boomerang story mette in scena una temporalità infinita eppure effimera, presentista appunto, attraverso un movimento che non conosce svolgimento ma solo un riavvolgimento continuo e costante. Una boomerang story mangia il tempo, lo divora, lo corrode e lo consuma nella ripetizione potenzialmente senza fine di un presente che si guarda e si riguarda, in un lasso di tempo che è però compresso, finito, socialmente delimitato. Boomerang, l’eterno ma limitato ritorno dell’uguale.
Se come dice Hartog, il nostro rapporto col tempo non può essere decretato definitivamente ma solo descritto, con Instagram possiamo guadagnare un punto di vista sul nostro presente per provare a dirne qualcosa. Un presente che si mostra e si lascia scrutare, che porta l’effigie di una gorgone dai mille occhi pietrificanti, ma che rivela in fondo il nostro stesso volto, il nostro mood nel modo del qui e dell’ora.
Roberta Agnese è romana, fa una tesi di dottorato in filosofia a Parigi e si occupa, per lavoro e per passione, di fotografia contemporanea. Le attività che predilige e a cui dedica la maggior parte del suo tempo sono i corsi di estetica per gli studenti della sua stessa università e l’aggiornamento costante del suo account Instagram. Le periferie sono casa sua.