di Valerio Valentini

Più che una previsione, per me, è
diventata una convinzione, o forse un assillo: se persevereremo nelle
logiche economiche e politiche alla base del delirio sviluppista che da
svariati decenni si va affermando in zone sempre più vaste del mondo,
nel giro di trenta o quarant’anni l’intero genere umano sarà costretto
ad affrontare la prospettiva di un probabile collasso. Ci si risolverà a
scegliere, in extremis, soluzioni drastiche per evitare la
catastrofe, oppure ci si lascerà inghiottire dalla nostra stessa ansia
di crescere a dismisura e in maniera incontrollata.
Avendo assimilato questa poco confortevole visione delle cose, mi
risulta naturale giudicare meritevole, o quantomeno attraente, tutta
quella letteratura divulgativa, cioè rivolta al famigerato grande
pubblico, che affronta in vario modo un tema molto vasto e riassumibile,
credo, in questa definizione: come recuperare quella condizione di
umanità, quasi del tutto perduta, che potrebbe garantirci una dignitosa
sopravvivenza. Proprio per questo ritengo che l’ultimo libro di Franco
Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna (Mondadori,
2013), sia un libro interessante da leggere: perché si dedica a questa
problematica, analizzandola alla luce della realtà dell’Italia
meridionale. Ma il libro di Arminio andrebbe letto, secondo me, anche
perché è un buon esempio di come su questo tema non si dovrebbe
scrivere, di come questa problematica non dovrebbe essere analizzata. Geografia commossa dell’Italia interna
è un’antologia piuttosto frammentaria di riflessioni, articoli, brevi
racconti e semplici annotazioni estemporanee, che l’autore è andato
componendo negli ultimi quattro o cinque anni (una cronologia definitiva
è difficile da azzardare). Parte del materiale qui raccolto era stato
precedentemente pubblicato su quotidiani o riviste, mentre altri
interventi erano comparsi su vari siti internet. Va detto che Arminio si
pone un obiettivo coraggioso, e lo persegue con sincera passione:
raccontare, attraverso le descrizioni di diverse aree del centro e del
sud italiano, come quella che viene comunemente definita “modernità” sia
un fenomeno che sta condannando intere comunità, insieme con le loro
particolari culture, ad una definitiva morte per avvizzimento. Si
riscontra, in molte delle non densissime 131 pagine, l’ansia di
salvaguardare i frammenti di un mondo ormai in dissoluzione, come
dimostra in maniera esemplare il testo intitolato Paesaggi,
un’enumerazione concitata e disorientante, quasi fosse lo scorrimento di
un negativo fotografico in controluce, di luoghi e visioni della
Puglia.
Il metodo con cui Arminio persegue il suo obiettivo è, apparentemente,
saldissimo: attraverso la paesologia. La quale è una disciplina
inventata, da qualche anno, dallo stesso Arminio, e che risulta – ma lo
si comprende con estrema fatica – una fusione di antropologia e
sociologia, di geografia umana e scienza del paesaggio. Ma questo rigore
metodologico è, come dicevo, solo apparente, a causa del fatto che la
suddetta disciplina sulla quale dovrebbe basarsi la ricerca di Arminio
appare essa stessa assolutamente vaga ed indecifrabile. Lo ammette lo
stesso autore nel testo d’apertura del libro:
La mia scrittura non ha il rigore della scienza, non vuole e non può essere attendibile. Il primato delle percezione sul concetto, del particolare sull’astrazione.
Questo non deve trarre in inganno, la mira è comunque altissima e non ho bisogno di concordare con nessuno il bersaglio. La paesologia non vuole fare riassunti o postille al lavoro altrui. In un certo senso è una disciplina indisciplinata, raccoglie le voci del mondo, sente quel che vuol sentire, dice quello che vuole dire. Un lavoro provvisorio, umorale, ondivago e volatile. (pag. 3)
Nel leggere questa dichiarazione d’intenti, rimango assai perplesso. Ma visto che mi trovo a pagina tre, spero che le restanti 128 pagine mi aiutino a comprendere in cosa effettivamente consista questa “disciplina indisciplinata”. Devo ammettere che non ci riesco, e mi rassegno a chiudere il libro con lo stesso senso di confusione con cui lo ho incominciato. Però non voglio arrendermi: accendo il computer e comincio a cercare qualche informazione in rete, dove, tra le altre cose, rintraccio una breve intervista di Marco Belpoliti a Franco Arminio (Belpoliti sembra stimare enormemente Arminio, arrivando ad accomunarlo nientemeno che a Sciascia e a Pasolini come un intellettuale appartenente “a quella genia di scrittori che fanno qualcosa di più che scrivere: testimoniano con la loro vita e la loro presenza l’incontrovertibile”). “Che cos’è la paesologia?” – chiede dunque Belpoliti. E Arminio: “in estrema sintesi potrei dire che la paesologia è scrivere col corpo dei luoghi in cui si vive o dei luoghi che si attraversano. Una forma di attenzione in cui l’osservazione del mondo esterno e quella del mondo interno s’intrecciano continuamente. Un’attenzione inquieta, in cui l’osservazione di qualcosa diventa osservazione di qualcos’altro”.
Continuo, francamente, a non capire. A me quella che Arminio teorizza, quella scienza che consiste nello “scrivere col corpo”, sembra una riproposizione, in chiave solamente più espressionista, di un’attività che, forse in maniera più meritoria, nell’Italia di oggi praticano – senza la consapevolezza, evidentemente, di aver fondato una nuova disciplina – scrittori come Paolo Rumiz e Claudio Magris e, se penso al teatro, mi viene in mente Marco Paolini. Ed è forse un genere letterario che vede nel Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli una sorta di fondatore, almeno per quanto concerne il secondo Novecento. Nulla di nuovo o di rivoluzionario, insomma, per cui valga la pena di inventare una nuova definizione.
Nello stesso testo d’apertura in cui presenta il suo metodo di lavoro, Arminio anticipa anche un altro dei leitmotiv dell’intero libro: la concezione della poesia come unica salvezza, come riavvicinamento al sacro.
Altro che moderno o postmoderno, altro che localismo o globalità. La faccenda è teologica. Abbiamo bisogno di politica e di economia, ma ci vuole una politica e un’economia del sacro. Ci vuole la poesia (pag. 4).
Ora, pensare che la poesia possa rappresentare davvero la soluzione rispetto alla dilagante disumanizzazione che Arminio descrive, è discutibile ma sicuramente legittimo. Quello che invece si fa molta più fatica ad accettare è la concezione che della poesia Arminio offre:
Non siamo mai stati tanti, non saremo mai tanti quelli che sentiamo la vita e la morte in un certo modo, quelli che guardiamo il mondo dal balcone di carta della poesia. Non si può stare in molti, altrimenti diventa retorica, discorso. Si parla di beni comuni, la poesia non è tra questi, la poesia cerca i solitari, gli affamati di amore, li cerca e affida loro il suo piccolo tesoro. Ci sono persone che sanno custodirlo, questo tesoro, e sanno mostrarlo. Così la poesia continua a essere un filo di fiato in mezzo ai sassi dell’universo (p.87). […] E io penso che la poesia non va scrutata con la ragione, ma assaggiata coi sensi, presa a morsi, a brandelli. Morderla più che leggerla, per vedere se dentro c’è sangue o segatura (p.93).
Se c’è un merito che va riconosciuto al modo in cui Arminio parla della poesia, forse è proprio quello di riassumere in maniera così esemplare, pur spacciandoli come caratteri positivi, due degli elementi peggiori di molta parte della poesia contemporanea italiana: l’idea che la poesia nasca da una predisposizione alla “fame d’amore” che pervade pochi miracolati toccati dalla Musa dell’Ispirazione, e quella, equivalente e contraria, che per comprendere la poesia sia necessario imparare quella dottrina oscura dell’“assaggiarla coi sensi”. E, a ben vedere, le due affermazioni sono due aspetti del medesimo cortocircuito: perché proprio spacciando come veritiera la diceria secondo cui per scrivere e comprendere la poesia, per provarci almeno, non si debba anche studiarne regole e tradizione, ma si debba soltanto essere in qualche modo iniziati ad un’arte misteriosa, ha portato molte persone a convincersi della possibilità di essere poeti in virtù della propria incompresa superiorità spirituale. E di fatto tutti ci sentiamo dei geni incompresi.
Ma forse Arminio con poesia intende
altro, o almeno anche altro, che non semplicemente lo scrivere in versi:
intende, pare di capire, qualcosa che si potrebbe definire umanità,
oppure riscoperta della bellezza delle piccole cose, oppure attaccamento
alle proprie origini, oppure convivialità, oppure un insieme di tutto
ciò. Ma, se così fosse, non credo che si renderebbe un buon servizio
alla poesia, né a tutte le altre cose che con quella parola si
sottintendono, nel generare una tale ambiguità lessicale.
Più volte Arminio, come si è visto anche dall’estratto di pagina 87,
mette in guardia il lettore dai rischi della retorica, biasima l’abuso
che di essa si fa nei nostri giorni e ne condanna gli effetti di
svuotamento di senso, di allontanamento dalla genuinità del linguaggio. E
qui, però, è inevitabile notare come una tale accanita critica Arminio
abbia dimenticato di rivolgerla, innanzitutto, contro se stesso. Geografia commossa dell’Italia interna
è una raccolta di testi che grondano retorica quasi dovunque. Una
retorica che corrompe e svilisce anche alcuni passaggi che invece
mostrano una non comune capacità di osservazione da parte dell’autore
(la si coglie, ad esempio, in Paesaggio con macerie: L’Aquila,
pag. 14), e la sua altrettanto non comune maestria nel registrare come
in presa diretta quella sorta di esaurimento nervoso che coglie i paesi e
le città che visita (vedi Tromba d’aria quotidiana, pag. 72). Il
problema, però, è che Arminio annacqua tutto con un lirismo
individualistico e fumoso (“L’amarezza è il mio campo da gioco. Le mie
giornate sono gite nell’amarezza, c’è sempre una montagna d’amarezza da
scalare, sono felice della mia amarezza, sono infelice della mia
amarezza, mi proteggo con la mia amarezza, mi annoio per la mia amarezza
…”, pag. 6), con una coazione all’anafora spesso irritante, con un
sovrabbondare di massime gnomiche che forse vorrebbero essere geniali,
ma sono in realtà patetiche (“il mondo non si sente col palmo della
mani, ma con la punta delle dita”, pag. 43; “le dimissioni del papa
hanno ufficialmente sancito la stanchezza degli umani, il loro
ripiegarsi sulle piccole vicende del proprio corpo e della propria
psiche”, pag. 51).
L’apoteosi della retorica, tuttavia, viene raggiunta nella sezione finale del libro, Saggi deliranti e facoltativi.
Va detto che forse il titolo serve a mettere in guardia il lettore: è
un invito di Arminio a non prendere troppo sul serio gli scritti che vi
sono contenuti. Ma si fa in ogni caso una fatica enorme ad arrivare fino
in fondo alle trenta pagine di questa raccolta di riflessioni – un
confuso miscuglio di pensieri, molti dei quali lunghi non più di due o
tre righe, messi in successione secondo una logica incomprensibile –
senza sentirsi nauseati dalla mescolanza di ermetismo e sentimentalismo a
buon mercato che troppe di esse rivelano. Un paio di esempi: “Tutto si
svolge sull’unghia annerita di un dito spezzato (fra poco non avremo
memoria neppure della mano a cui era attaccato)” (pag. 123). “La vanità
della carne, l’innocenza delle ossa, l’umiltà della cenere” (pag. 124).
“Dobbiamo darci all’ebbrezza, accontentarci di non capire quasi niente”
(pag. 121). “Bisogna inventarsi un batticuore, oppure ossidarsi
lentamente” (pag. 114).
Molti dei testi di Arminio, soprattutto quelli inseriti in questa sezione finale, sembrano rivelare una precedente gestazione in versi. Lo si percepisce soprattutto leggendo i “saggi” più brevi, come questi: “Di noi diranno che fu finta perfino la vita più convinta” (pag. 124); “Offro ai grandi spiriti la passione di essere umiliato. Agli altri, quella più evidente, di essere adulato” (pag. 126); “Portare la parola al sangue, all’osso, non so a cosa è servito. Però io ancora scrivo, tutto il resto mi è vietato” (pag. 126). Ciò che risalta è la ricerca di una vaga assonanza, l’utilizzo di rime un po’ sbrigative (finta/convinta; umiliato/adulato), un’abbozzata musicalità, quasi si trattasse di tentativi maldestri di richiamare alla mente i distici di Sandro Penna (in realtà ce ne sono alcuni, come “Prendo a pugni la giornata e la giornata si fa muro” che, si parva licet, a me ricordano piuttosto Rocco Tanica). E in effetti la sensazione viene confermata grazie ad una breve ricerca sul web: si scopre così che “Di noi diranno che fu finta/perfino la vita più convinta” è il distico di chiusura di una poesia che Arminio ha pubblicato sul suo blog, intitolata magistero dei finti. Ma questo processo di rimodellamento non riguarda, a ben vedere, soltanto i pensierini più brevi. Il testo inserito a pagina 116, ad esempio, è anch’esso la trasposizione in prosa di una poesia che Arminio aveva pubblicato, oltre che sul suo blog, anche sul «Manifesto», e che è stata riproposta da Leparoleelecose. Eccolo:
aggiornamenti sul familismo amorale
il posto il favore le mani sui coglioni
accompagnare con la macchina i figli a scuola
leggere il giornale sportivo sul frigo del bar
gettare le carte per terra
organizzare con cura la cresima dei figli
fare e ricevere regali orrendi
andare a messa senza crederci
dimenticare i morti
votare gli imbroglioni
uscire alle feste patronali e le sere di agosto
parlare male di chi fa qualcosa di buono
e così via
furiosamente lontani dalla dignità
dalla poesia.
Tutto quello che Arminio fa, insomma, è
rimuovere gli a capo, inserire qualche virgola, e trasformare il titolo
della sua poesia nell’incipit del “saggio”, seguito dai due punti. Credo
che tutto ciò sia molto indicativo del fatto che Arminio concepisca
come estremamente labile il confine tra la sua prosa e la sua poesia. E,
su questo, nulla da eccepire: ognuno ha le sue convinzioni. Quello che
però è difficile da sopportare è il pensare che uno scrittore che passa
pagine e pagine a decantare gli elogi dell’eccezionalità della poesia,
possa così sbrigativamente riciclare i suoi componimenti per farne delle
pillole di saggezza da inserire in una raccolta eterogenea di
riflessioni. Possibile che Arminio non pensi che, per il solo fatto di
essere ridotte in forma prosastica, e l’essere affiancate ad altri testi
di argomento diversissimo, le sue poesie subiscano un vero e proprio
stravolgimento di senso? Ho l’impressione che se un testo in versi si
presta ad essere con tanta facilità ridotto in aforisma, forse non si
tratta né di un buon testo in versi né di un buon aforisma.
Oltre che con la poesia, comunque, o qualunque cosa Arminio voglia intendere con quella parola, Geografia commossa dell’Italia interna
propone anche altre soluzioni per opporsi al delirio della modernità.
Si tratta di soluzioni che si richiamano a quella che è la teoria, o la
retorica, della decrescita, o che comunque intendono inserirsi nel solco
della critica allo sviluppo del ventesimo secolo. Eppure anche in
questo caso il lirismo di Arminio, il suo ricorso costante
all’enumerazione e all’accumulazione enfatica, rendono molto fumosa
qualsiasi proposta. Come quando, in Divagazioni sull’anno nuovo, Arminio dichiara:
Il mondo ha bisogno di essere amato e accudito, prima di essere pianificato o portato chissà dove. Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, significa rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza. (pag. 49)
Ci si ritrova di fronte a qualcosa che sta a metà tra un comizio di Matteo Renzi e una pagina di un Latouche for Dumnies. Ed esempi del genere sono frequentissimi nel libro.
Il risultato, credo, è che un lettore che conosca quell’universo di
precedenti, più o meno diretti, che stanno alla base delle teorie di
Arminio (Pasolini, Thoreau, Illich…) non può far a meno di storcere il
naso davanti alle continue diluizioni, che spesso rischiano di diventare
veri e propri svuotamenti, dei concetti che da quegli autori erano
stati espressi. E un lettore che invece si approccia a simili tematiche
per la prima volta attraverso il libro di Arminio? Quale potrebbe essere
la sua reazione? Temo che in questo caso un simile lettore potrebbe
presto stancarsi di tutta questa retorica e, giudicando le idee
anti-sviluppiste (orrenda parola, lo so) sulla base delle formulazioni
che ne dà Arminio, finirebbe col ritenerle – cosa che del resto già
accade molto spesso – fatue in se stesse; oppure, se si tratta di un
lettore dallo scarso senso critico, potrebbe finire con il lasciarsi
suggestionare da questa evanescenza lirica à la Baricco, e
innamorarsi della “nuova teologia” propagandata da Arminio così come
potrebbe restare affascinato dalla “filosofia” di Fabio Volo.
Quello che, in definitiva, disturba enormemente in Geografia commossa dell’Italia interna,
è constatare come il suo autore, che tanto depreca questa modernità ed
il suo portato di “autismo corale”, se ne sia in realtà lasciato
corrompere, soprattutto nell’uso del linguaggio, replicandone una certa
tendenza alla vaghezza e all’artificiosità. Arminio sembra voler
combattere – ammesso che la sua sia una scelta consapevole – un nemico
di cui mutua le armi. E così, pur combattendolo con genuina onestà,
rischia di farsene complice.