Non molti anni fa, ma in un tempo ormai lontano, è esistito un movimento intellettuale che, coniugando una grande originalità teorica con una volontà di riscatto politico del meridione, è divenuto noto con il nome di école barisienne. Nata nel seno del PCI e con l’aspirazione di rinnovarne le forme – stirando la verticalità politica con una dose di orizzontalità civica – l’école si distingueva per una certa rilettura di Marx in chiave gramsciana. Purtroppo (o per fortuna – secondo i punti di vista) la configurazione istituzionale di allora si è sfaldata, la luce di quel vecchio Partito non illumina più i corridoi delle università (ma al massimo qualche isolata scrivania qua e là) e persino parlare di scuole, in un clima di crescente dismissione dell’Università, sembra del tutto fuori luogo. Ma poiché, come si sa, non tutti i mali vengono per nuocere, è capitato che un giovane (e precario, ça va sans dire) ricercatore barese, Alfredo Ferrara, abbia organizzato un convegno su Gramsci e il presente, raccogliendo altri giovani (e precari) ricercatori italiani con l’intento spudorato di leggere Gramsci nel presente, e viceversa il presente con Gramsci, liberi da ogni autorità politica o accademica che decidesse in anticipo la legittimità delle loro scelte teoriche. Ne è risultato un agile e frizzante volume, “Prospettiva Gramsci”, pubblicato meritoriamente da una casa editrice barese indipendente ed emergente, Caratteri Mobili, che si è accollata il merito e la responsabilità di ospitare le riflessioni di questi giovani apolidi della sociologia e della teoria politica.
Tutte queste considerazioni contestuali non sono anodine, se si pensa al carattere politico da cui il libro parte e al quale mira: si tratta di riflessioni di giovani studiosi e militanti (come si evince dalle biografie in coda), per i quali l’elaborazione teorica non è separata dalla prassi politica e il cui intento è appunto quello di dotarsi di strumenti di discussione e di lettura del presente in una prospettiva politica, in tempi di latitanza del politico. Il movimento è in un certo senso opposto a quello tentato dall’école barisienne: non si tratta più di fluidificare l’eccessivamente solido, ma di gettare delle ancore nell’irrimediabilmente liquido. Prospettiva Gramsci è, infatti, il titolo del volume collettivo, metafora di una pluralità di voci unite da uno sguardo strategico, che usando il pensiero gramsciano come una leva mobile, cerca il punto da cui attaccare la realtà. Se le esigenze di una simile operazione sono evidenti, più difficile è cogliere l’opportunità di farlo dialogando con Gramsci e proprio con Gramsci. Io credo che in un momento storico teso fra dinamiche populiste da un lato, e discorsi individualizzanti e tendenzialmente nichilistici dall’altro, l’esercizio, cui Gramsci ci invita, di andata e ritorno fra la realtà e la teoria, di equilibrio fra l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione, sia quanto mai necessario e virtualmente carico di efficacia. Non sempre, forse, tale equilibrio è stato raggiunto da ciascuno dei saggi presenti nel volume, ed è forse questo l’unico limite di un libro che per altro merita di essere letto e soprattutto discusso (cosa che rende quel limite più trascurabile), il cui destino non è tanto quello di finire relegato in uno scaffale di biblioteca, quanto quello di circolare di mano in mano nelle assemblee d’istituto, nelle aule occupate delle università o nelle sedi delle organizzazioni politiche. L’interesse dei singoli interventi, per di più, non è tanto nel contribuire a un dibattito accademico (nonostante alcuni saggi posseggano un notevole spessore epistemologico), quanto nel fornire al lettore problematizzazioni inedite di questioni brucianti (siano esse schiettamente teoriche, oppure sociali e politiche) attraverso il grimaldello delle categorie o delle teorie gramsciane. Ognuno meriterebbe di essere riassunto individualmente, e con ogni autore verrebbe voglia di accapigliarsi e discutere, ma mi limiterò a focalizzare solo alcuni punti: il libro si apre con un saggio di Giacomo Bottos, dedicato a Gramsci e i presupposti della politica, in cui si coglie la preoccupazione (quasi da establishment) di restituire ai partiti l’egemonia perduta, e prosegue passando attraverso articoli che cercano invece di attualizzare in maniera originale gli strumenti offerti da Gramsci, come quello di Federico Carbognani e Rossella Viola e quello di Enrico Consoli, rispettivamente dedicati allo studio del sistema di istruzione in termini di classe e alla categoria di cesarismo applicata ad alcune figure della recente politica italiana. Di carattere più sociologico il primo e più politologico il secondo, entrambi dimostrano la fecondità e l’originalità che il dialogo con Gramsci può ancora produrre. I saggi di Alfredo Ferrara, curatore del volume, e di Giuseppe Montalbano, pur dedicati a temi diversi, trovano un punto di dialogo – e forse di divergenza – nell’interpretazione della rivoluzione passiva: laddove Ferrara propone una documentata e convincente lettura del neoliberismo in quanto «rivoluzione passiva» (facendo i conti con il portato antropologicamente tragico e politicamente aporetico di una simile idea), Montalbano al contrario, discutendo alcuni approcci neogramsciani al problema dell’egemonia, intende la «rivoluzione passiva» come un progetto egemonico dei dominanti, riponendo per contrasto una fiducia quasi incondizionata nella capacità dialettica dei subalterni di invertire la situazione storica, ma per ciò stesso sottovalutando il carattere tragico di questo processo. Mi sembra in altri termini che la sua ipotesi non faccia pienamente i conti con la passività evocata dall’espressione gramsciana e con il fatto che essa prevede un concorso dei subalterni, una loro (nostra!) certa voluttà nell’esser governati, nell’abdicare alla propria volontà politica in virtù dell’aderenza a un modello antropologico forse non più riconducibile alla dialettica hegeliana del servo e del padrone. Insomma, confidare nella struttura dialettica del reale e affidarsi alla volontà di emancipazione dei subalterni significa senz’altro schierarsi dalla parte giusta della storia, ma significa nello stesso tempo credere alla linearità di questa storia e ridurre la complessità dei desideri dei soggetti che ne sono immersi. Se invece una rivoluzione passiva si compie fino in fondo, come mostra Ferrara, è perché quegli stessi soggetti hanno fatto del proprio giogo il proprio abito; che ciò sia avvenuto senza una precisa volontà politica – e dunque passivamente – nulla toglie all’effettività del processo, ed è anzi un elemento che dovrebbe costringere a raffinare gli strumenti del materialismo facendo i conti con questa inedita – per quanto straniante – solidarietà culturale e antropologica fra i governanti e i governati, che va compresa e analizzata prima ancora di essere moralizzata e stigmatizzata. Come si diceva, il pessimismo della ragione è esercizio ben più arduo dell’ottimismo della volontà, ma l’uno non può andare senza l’altro, pena il risolversi in cinismo fine a se stesso o, al contrario, velleitarismo naif. Il pezzo di Mariano Di Palma dedicato alla subalternità si muove pericolosamente lungo questo crinale e a volte scivola dal lato di un eccesso di ottimismo, laddove la postura analitica lascia ampio spazio a toni assertori, ma ha senz’altro il merito di puntare il dito sulle nuove frontiere della dominazione e, quindi, della possibile ricomposizione di classe. Chiude il volume un saggio di Lorenzo Zamponi, dall’accattivante titolo “Gramsci a Tharir”, che discute il tema spinoso dello spontaneismo nelle azioni collettive dei movimenti sociali. L’impressione è che il discorso di Zamponi, per altro ben documentato, perda di rigore e viri verso l’autoreferenzialità nel momento in cui si risolve in una stoccata equivoca (perché ampiamente suggerita, ma non pienamente rivendicata) di un’anima dei movimenti italiani contro un’altra. Un dérapage, direbbero elegantemente i francesi, che distoglie il lettore da una discussione di per sé essenziale e nella quale la posta in gioco è niente di meno che l’organizzazione dei movimenti. Prospettiva Gramsci è in conclusione un libro vivace e vivente, che non offre risposte alla crisi politica della nostra generazione, ma che non si limita nemmeno a metterla a tema, porgendo invece innumerevoli appigli a chi voglia ostinarsi a fare del futuro un’impresa collettiva.
Libro: Sono andata in vacanza in un’isola non minore, ma con questo libro dalla scrittura fluida, al cui centro c’è il rapporto tra due sorelle e il mare, ma anche la veracit�? toscana con cui ci si incazza e scazza subito dopo, l’Italia sullo sfondo, ma non troppo, l’Italia continente ma non troppo, l’amore smisurato per la piccola isola, i suoi orizzonti infiniti. Film: Ci sono, come al solito, molti film che vorrei segnalare, e niente, alla fine ho scelto questo perché la maggior parte dei redattori ha deciso di fare un commento per ogni roba che segnaliamo e io me la cavo perché ne ho gi�? ampiamente scritto qui. Album: Har Mar Superstar è un tizio che su wikipedia ha come foto un se stesso appena sveglio e in slip. Trasformista su scena ed esibizionista, ti fa fare un tuffo negli anni ‘50 con un tocco di pop e di elettronica.
Lorenza Pieri, Isole minori, edizioni e/o
Caterina resse le accuse e incassò la
strigliata ma quando fummo sole mi torse un orecchio mentre stringeva i
denti con rabbia: «Che ti è saltato in mente di raccontare, idiota?».
Dissi solo che mia mamma aveva chiesto cosa sognavo e io avevo
raccontato il mio incubo, ma non le avevo detto della storia dello
schiaffo e tutto. Fu chiaro fin da subito tra noi sorelle che dello
schiaffo che aveva preso Caterina non si doveva parlare, né allora né
mai. Non credo di essere stata consapevole che raccontare l’accaduto
avrebbe potuto aggravare la portata dell’evento. Sapevo che Caterina
voleva così. Lo sapevo e questo mi bastava per seguire la sua volont�?.
Mi aveva difeso nuovamente e io non ero stata in grado di difendere lei.
L’ubbidienza al suo volere era l’unico modo in cui potevo dimostrarle
la mia gratitudine.
Caterina il sole, io nella sua ombra.
Caterina che piange di rabbia, io che rido per niente.
Caterina e le sue storie, io il suo pubblico.
Caterina l’avvocato, io il cliente assolto.
Caterina rossa, tra i rovi e l’erba secca, io mora, tra i papaveri e le ginestre.
Caterina continente, io isola minore.
Claude Barras, Ma vie de courgette, Francia
Ross & Matt Duffer, Stranger things, Netflix
Har Mar Superstar, Best Summer Ever, Cult Records
Paul B. Preciado, Le lieu qui t’accueille, Liberation
C’est la Méditerranée. C’est le lieu où
tu arrives. C’est la Grèce. C’est le lieu qui t’accueille. C’est le sol
qui pourrait être sous tes pieds. C’est la mer qui te noie. C’est
l’Europe. C’est le ciel qui semble être le même pour tout le monde mais
qui ne l’est pas. C’est le monde. C’est le cash flow. C’est la terre que
tu foules. C’est la rue que tu laisses derrière toi. C’est la ville
dans laquelle tu entres. C’est le Parlement vide. C’est la place
remplie. C’est Calais. C’est le monde. […] C’est l’état d’agrégation de
la matière. C’est la sélection des cent meilleurs livres: une fois
encore, tous sont écrits par des hommes, sauf deux. C’est la démocratie
représentative comme couverture de la corruption. C’est la résistance
des cartes au changement. C’est la Méditerranée. C’est l’Europe. C’est
le lieu où tu arrives.
Fred Cavermed
C’è urgenza di umanit�? nel mondo. La storia corre veloce e i popoli europei tentano di guardarla restando al riparo. È un intento velleitario che ci permette di sentirci ancora al caldo e al sicuro. Ma abbiamo paura, perché sentiamo che la tempesta ci coinvolge. In un certo senso, è questo il sentimento che Thomas Ostermeier mette in scena quando ha a che fare con il grande classico russo Il gabbiano, di Anton Cechov: un manipolo di personaggi, con intermezzi musicali contemporanei e davanti a un’opera d’arte effimera che un’artista disegna in tempo reale sulla scenografia, trascorrono dei giorni di vacanza in un paesaggio tranquillo, dove esprimono la loro bassezza umana restando attaccati alle loro individuali sicurezze, ai propri piccoli interessi e piaceri. Il prologo, in cui si parla della Siria, svela che quella bassezza è la nostra. La storia corre veloce e, tra gli eventi internazionali ai quali abbiamo assistito negli ultimi anni, c’è stata la questione della Grecia. Questa Grecia, la Grecia della crisi, ce la racconta Rhéa Galanaki, scrittrice cretese e figura eminente della letteratura greca contemporanea, nel suo romanzo L’Ultime humiliation, tradotto quest’anno in francese. È un romanzo di valore: con il tono lirico della tragedia e un filo di ironia, il narratore ci racconta le vicende di due matte da legare che si smarriscono nelle strade dell’Atene delle manifestazioni e dei senzatetto, nella Grecia dei miti antichi e della storia contemporanea. Un’odissea purtroppo non tradotta in italiano. C’è urgenza di umanit�?. C’è bisogno delle verit�? che le vite comuni della gente comune costruiscono lontano dai centri del potere e del sapere. C’è bisogno di opere d’arte e di ricerche che restituiscano questa dignit�? al punto di vista dei piccoli, al formicolio umano che subisce e insieme fa la storia. Per questo ho deciso di chiudere con un docu-film che racconta la rivoluzione egiziana del 2011 dalla periferia agricola in cui vivono Farraj e la sua famiglia (di questo film ho gi�? parlato qui).
Rhéa Galanaki, L’Ultime humiliation Galaade Éditions (traduzione di Loïc Marcou)
C’est ainsi que tu te retrouvas en hiver,
�? la tombée du jour, sur cette célèbre place du centre. Sur la scène
de théâtre la plus insolite qui ait jamais été montée au cœur d’une
capitale. Elle n’avait pas toujours eu cette forme, cette place. Déj�?
bien avant ta naissance, elle était devenue non seulement une double
place mais aussi une place �? double sens. On aurait dit que le
ville-mère de la tragédie avait voulu �? un moment étager sa scène
principale sur deux niveaux distincts pour rappeler �? ses habitants ce
qu’était une représentation publique, ou ce qu’était une joute publique,
ce qui revient quasiment au même. L’Athènes moderne, la nouvelle
capitale, avait peut-être eu une autre ambition: rappeler �? ses
habitants que, dans la vie, tout peut devenir double et avoir un double
sens – le sommet et la base, la puissance et la faiblesse, le mensonge
et la vérité, le passé et le présent, l’équilibre et la folie, la
liberté et l’esclavage, la vie et la mort, et ainsi de suite.
Thomas Ostermeier, Il gabbiano, di Anton Cechov
Anna Roussillon, Je suis le peuple, Francia, Egitto, Haut Les Mains Productions
Chiara Impellizzeri
Se avessi scelto un romanzo, questo sarebbe stato senza ombra dubbio Mémoire de fille di Annie Ernaux, che non esito a giudicare il terzo migliore libro dell’autrice dopo Gli anni e La place. Un romanzo molto liberatorio, che coniuga alla grazia stilistica propria dell’autrice la vividezza del personaggio e la spietatezza con la quale il suo soggetto – il ricordo delle prime, tremende e ingenue, esperienze sessuali – è trattato. Guardando al suo passato, la Ernaux riesce in modo magistrale e a mio giudizio inedito a tratteggiare un personaggio dal forte spessore psicologico, ingenuo e determinato allo stesso tempo, capace di sfuggire ai clichés delle narrazioni sulla fragile vittima. Lo riservo per le segnalazioni del prossimo anno, quando sar�? tradotto in italiano, e scelgo invece un libro che mi piacerebbe fosse tradotto, un saggio brillante e di scorrevolissima lettura, Labour of love. The invention of dating di Moira Weigel, giovane dottoranda di Yale. Il libro della Weigel unisce ricostruzione cronologica e analisi tematica, studio dei classici del genere, fonti giornalistiche e attenzione alla cultura pop (romanzi rosa, rom-com, serie tv, manuali e siti di auto-aiuto) per mostrare in che modo fenomeni ritenuti privati e ideologie diffuse sull’amore e la coppia abbiano un’origine storica, sociale e siano evolute insieme alle mutazioni del sistema economico. Si tratta di un appropriato pendant al saggio di Eva Illouz, Perché l’amore fa male, con il quale condivide l’idea (esplicitata gi�? dal titolo) di «trattare l’amore come Marx trattava le merci», permettendosi però alla fine di proporre non tanto un «rifiuto del lavoro» emotivo dell’amore, quanto una «riappropriazione» dello stesso e una «redistribuzione» del lavoro che eviti dinamiche di «sfruttamento». Al di l�? di un epilogo propositivo e militante, Labour of love complessifica certe equivalenze sempre troppo facilmente sostenute («liberismo economico = Sessantotto e rivoluzione sessuale = libero mercato dell’amore di oggi»), senza cadere nel deprimente ritratto dell’eroina alla Bridget Jones, inevitabilmente destinata a �?perdere valore nel mercato contemporaneo (troppo presente invece nel saggio della Illouz, gi�? dal titolo che motteggia i manuali di auto-aiuto). Il testo anzi rimette piuttosto in discussione la stereotipizzazione dei ruoli di genere e analizza la nascita e la diffusione recente di concetti generalmente ritenuti verit�? ‘naturali’ e assolute (uno su tutti: l’orologio biologico. Internazionale ha tradotto un suo articolo sulla questione, nel n.1170).
Per le altre scelte, ho meno da dire: Westworld è per me la migliore serie dell’anno, sia per la qualit�? registica e attoriale (a dir poco sconcertante) che per i modi in cui il classico tema fantascientifico dei robot è affrontato. Senza nulla voler togliere, va detto che brilla ancor di più in un anno fiacco in serie tv capaci di competere. Segnalerei anche The Affair, per me la migliore serie drammatica degli ultimi tre anni e Haters, back off!, promettentissima serie Netflix dall’umorismo grottesco. Per l’album, sono tentata dal suggerire un Kanye West, The life of Pablo: pasticciato, arrogante, sperimentale, splendore e monnezza dell’Auto-tune, ha tutta la mia simpatia. Ma preferisco di gran lunga il suo opposto, il più sobrio untitled unmastered di Kendrick Lamar: talento, rap, free jazz e rabbia mi vincono, insieme a una delle migliori performance live del 2016. Ho visto poco teatro purtroppo (e per ragioni meramente economiche) dunque mi limito a segnalare un visivamente molto suggestivo 6 am: How to disappear completely. Per l’articolo, Let them down di Naomi Klein, trascrizione di un intervento orale, che in modo lucido, semplice e partigiano invita a collegare tra loro battaglie in campi troppo spesso sentiti come diversi (migrazioni, difesa ambientale, critica del neoliberismo). Internazionale lo ha tradotto nel n.1169, recuperatelo!
Moira Weigel, Labour of love. The invention of dating, Farrar Straus & Giroux.
As rating and dating taught young people then to be
captains of industry and good career girls and housewives, hooking up
teaches us the flexibility that the contemporary economy requires.
Today, the average millennial spends no more than three years at any
job, and more than 30 percent of the workforce is freelance. Hooking up
gives you the steely heart you need to live with these odds. Like a
degree in media studies, it prepares you for anything and nothing in
particular.
[…] Young people today are told that if we want to stand a chance, we
must be mobile. We must be ready to move across the country in order to
take a job, or to move in with family members after we lose one. We
should chase promotions and freelance gigs where we can. With the
possibility of a break looming constantly on the horizon, it can be
difficult to feel sure enough about someone to commit. And when both
members of almost any couple have to work, the prospect of the
commitment always comes with the question of what professional
opportunities you would be willing to give up later.
[…] As I neared the end of my research, I
began to notice that our culture has a similarly split attitude toward
love. On the one hand, we fixate on it. Americans gorge on romance
novels, sentimental movies, and bride-themed reality shows; couples take
on debt to stage industrial-size weddings, then slog through years of
costly therapy trying to keep the promises they made at them. On the
other hand, we accept social arrangements that leave many people little
time to devote to personal relationships. Images and narratives about
love that we consume constantly reinforce the message that only certain
kinds of love can count.
Westworld, Season 1, HBO
Blitztheatregroup, 6 am: How to disappear completely
Kendrick Lamar, untitled unmastered, Aftermath Entertainment
Naomi Klein, Let them drown, London Review of Books (tradotto sul n.1169 di Internazionale)
A Calais i bulldozer radono al suolo gli
accampamenti di migranti, migliaia di persone annegano nel Mediterraneo e
il governo australiano rinchiude i sopravvissuti a guerre e regimi in
campi sulle remote isole di Nauru e Manus. A Nauru le condizioni sono
così disperate che ad aprile un migrante iraniano si è dato fuoco per
cercare di attirare l’attenzione del mondo. Una somala di 21 anni ha
fatto lo stesso pochi giorni dopo. Il primo ministro Malcolm Turnbull
avverte gli australiani che “non possono lasciarsi commuovere da questi
episodi” e devono “essere determinati nel perseguire il loro obiettivo
nazionale”. Forse dovremmo ricordarci di Nauru la prossima volta che una
giornalista di un quotidiano di Rupert Murdoch dichiara, come ha fatto
Katie Hopkins l’anno scorso, che è ora che il Regno Unito “diventi
australiano, mandi gli elicotteri d’assalto, costringa i migranti a
tornare alle loro coste e bruci le barche”. Ha un significato simbolico
anche il fatto che Nauru è una delle isole del Pacifico più vulnerabili
all’innalzamento del livello dei mari. Dopo aver visto le loro case
diventare prigioni per gli altri, probabilmente anche i suoi abitanti
prima o poi dovranno emigrare. Le guardie carcerarie di oggi sono i
profughi climatici di domani. Le due questioni sono frutto della stessa
logica. Una cultura che attribuisce così poco valore alla vita di chi ha
la pelle di un altro colore da lasciare che degli esseri umani siano
inghiottiti dalle onde o si diano fuoco nei campi di detenzione sar�?
disposta a lasciare che scompaiano tra le onde o siano arsi dal sole
anche i paesi in cui quegli esseri umani vivono. Quando accadr�?, per
razionalizzare queste mostruose decisioni si formuleranno teorie sulle
gerarchie umane, si dir�? che dobbiamo preoccuparci prima di noi stessi.
Questa razionalizzazione è gi�? in atto, anche se per ora resta
implicita. Prima o poi il cambiamento climatico sar�? una minaccia
all’esistenza di tutta l’umanit�?, ma per ora discrimina, colpisce prima
e con forza i poveri, che siano quelli abbandonati sui tetti di New
Orleans durante l’uragano Katrina del 2005 o i 36 milioni che secondo
l’Onu soffrono la fame nell’Africa orientale e meridionale a causa della
siccit�?.
Claudia Crocco
Quest’anno ho letto soprattutto libri del
passato, sia in prosa sia in versi; e ho letto saggi molto belli, che
hanno cambiato il mio sguardo nel modo in cui, di solito, mi capita solo
con i romanzi. Quindi ho letto Works di Vitaliano Trevisan (Einaudi, Stile Libero Big).
Ho scelto di segnalare Works, perché è una riflessione su ciò che d�? senso all’esistenza e su ciò che crea un’identit�? – anzi, su ciò che dovrebbe
creare senso e identit�?. Ad esempio il lavoro e il luogo in cui si è
nati, due concetti che, nel libro, dipendono l’uno dall’altro: l’idea
quasi calvinista di lavoro che il protagonista ha ereditato e che,
ritornando ossessivamente, condiziona molte delle sue scelte, viene
presentata come il risultato del contesto sociale. Riempire l’esistenza
con il lavoro è parte di quell’origine veneta che spesso l’autore
disprezza o ridicolizza, ma che è anche parte innegabile di sé. Works è un memoir
e, allo stesso tempo, è un romanzo a tema: la vita di chi scrive è
ripercorsa attraverso le sue (molte) esperienze lavorative, e questo
vincolo viene rispettato fino in fondo: le relazioni sentimentali, il
rapporto con il padre e quello con le figure femminili (la madre, la
sorella, la moglie e svariate donne di passaggio), la depressione e le
ossessioni entrano in scena sempre e solo per spiegare meglio lo stato
d’animo o la condizione esistenziale che hanno portato Trevisan a
lavorare in una fabbrica di gabbie per uccelli, in una di giostre, in
uno studio di architetti, in un giro di spacciatori ecc. I desideri
individuali sono sempre in contrasto con ciò che il mondo (inteso come
contesto sociale che ha il proprio primo nucleo nella famiglia) si
aspetta, e il risultato è uno scollamento emotivo, tanto che uno dei
timori del protagonista è di perdere il lavoro perché non mostra abbastanza entusiasmo.
Avere imparato ad evitare l’eroina in vena, a lavorare la calce e a
disegnare interni di armadi si rivela utile, ma in fondo tutti gli atti
necessari a svolgere questi lavori vengono compiuti quasi
meccanicamente, non colpiscono chi li compie né rivelano nulla di lui. Works è il primo libro di Trevisan che leggo, dunque non lo
riporto in questa lista perché sono rimasta colpita dai continui
riferimenti a romanzi, racconti e monologhi teatrali precedentemente
pubblicati dall’autore: non avrei potuto identificarli, e d’altronde non
sono inseriti per questo motivo (ogni volta viene indicato persino il
numero di pagina). Questa forma di autocommento è composta anche dai
lacerti di diario e da brani di altri autori (Beckett, Bernhard, ecc.), e
alimenta una scrittura che supera le convenzioni del romanzo e
dell’autobiografia; ma rispetta, a ben guardare, il vincolo dato a
partire dal titolo: per quanto quasi in ogni capitolo venga sottolineato
(esplicitamente o meno) che la scrittura non è una forma di lavoro, in
realt�? questo libro può essere visto come la storia di ciò che ha
portato Vitaliano Trevisan a dare forma alla propria vita diventando uno
scrittore.
La forza di Works è anche nelle sue parti saggistiche,
perfettamente integrate con quelle più propriamente narrative. Questo è
anche un libro sul Nord Est, su quel grigio misto di monti e fabbriche
dismesse che solo attraversando il Veneto in treno (io in treno,
Trevisan in moto) si può davvero comprendere: o meglio, sulle origini
umane di quel paesaggio, e sulla profonda mutazione economica e sociale
che lo ha plasmato negli ultimi decenni.
Non ho scelto un articolo, perché quest’anno essere online ha avuto su
di me un effetto quasi sempre disturbante, incompatibile con la lettura e
con la riflessione.
Ho guardato pochi film e molte serie TV, con lo stesso spirito con cui
leggo i romanzi (per entrare in mondi altrui: talvolta per ricavarne una
esperienza, in altri casi solo per anestetizzarmi). Mi sono piaciute Stranger Things e Westworld,
cioè le serie dell’anno, ma in fondo le considero sopravvalutate e non
così originali (anche se continuerò a guardarle). Continuerò a guardare
anche Game of Thrones (anzi, aspetto con ansia [sic!] la
prossima stagione), ma quest’anno mi ha infastidita, perché è diventato
troppo politicamente corretto. Non ho ancora mai visto Bojack Horseman. Ho apprezzato molto American Crime (Felicity Huffman è sempre una garanzia, anche quando fa un ruolo da stronza), ma non potevo non scegliere Black Mirror
(Charlie Brooker, Netflix). Qualcuno sostiene (anche nella redazione di
404: sì, sto parlando con te, Levacci) che con il passaggio a Netflix
la serie abbia perso brillantezza e che le trame siano diventate più
prevedibili. Forse è vero, in minima parte (ad esempio per quanto
riguarda Nosedive e Playtest, i primi due episodi), ma
il risultato mi sembra sempre di livello altissimo. La distopia di
Brooker continua a svilupparsi soprattutto in due direzioni: da un lato
la riflessione sulle relazioni, soprattutto su quelle di coppia;
dall’altro la descrizione dei cambiamenti che l’evoluzione tecnologica
comporta nell’idea di giustizia e di libert�? individuale. Il primo
punto di vista è quello che prevale (per quanto riguarda le precedenti
stagioni) in The Entire History of You e Be right back, mentre il secondo è tematizzato in The National Anthem e in White Bear. Gi�? a partire da White Christmas,
lo splendido episodio uscito a dicembre 2014, i due aspetti sono
intersecati; si fondono ancora di più in questa ultima stagione.
L’episodio più bello è il terzo, perché manda in cortocircuito qualsiasi
sistema morale: se fino a tre quarti della puntata lo spettatore è
portato a empatizzare con il protagonista sedicenne, l’empatia crolla
quando si scopre il motivo del suo coinvolgimento nella truffa virtuale.
E ora dovrei parlare di perché ho scelto A Moon Shaped Pool
(Radiohead) come disco dell’anno, ma lo spazio è finito e, a proposito
di distopie, ho giusto il tempo per dire che due puntate di serie
distopiche, quest’anno, si chiudono con una canzone dei Radiohead (che
poi è sempre la stessa: Exit music, tratta da Ok Computer, 1997). Una di questa è Westworld, l’altra è Shut Up And Dance di Black Mirror.
Vitaliano Trevisan, Works Einaudi
Vero, mi dicevo camminando verso casa, va
sempre così: costruisco qualcosa, e poi subito faccio saltare tutto in
aria. Del resto, se ero appena stato al negozio di lavoro temporaneo,
era proprio perché, come da capitolo precedente, era andata ancora una
volta esattamente così: appena ero riuscito a costruire qualcosa, avevo
subito colto l’occasione per distruggere tutto, e così di nuovo fallire.
E ogni volta il fallimento del presente sar�? solo il sintomo, la
conseguenza, di un fallimento anteriore, generale, assoluto, rispetto al
mondo per come è il mondo, e per come sono io di fronte al mondo,
fallimento il cui germe risiede in me da sempre […], mentre nient’altro
dovrei fare se non trarre le dovute conseguenze, come si dice, e dire
finalmente quel NO!, forte, chiaro, definitivo, che invece, ancora una
volta, non trovavo il coraggio di dire, esattamente come non avevo
trovato il coraggio di dirlo allora, nel momento esatto in cui avevo
capito, e invece, per la disperazione e la vergogna, non riuscendo a
togliermi del tutto, mi tolsi solo in parte, e iniziai a raccontarmi la
storia che continuo a raccontare anche adesso, ma non qui perdio, non in
questo libro. O meglio sì: anche qui, con la sostanziale differenza che
la racconto esattamente per quello che è, cioè una storia come
un’altra.
Disperazione, è per questo che scrivo, vale ora e valeva anche allora,
mentre tornando verso casa ero caduto di nuovo nel buco nero di questi
tristi pensieri [….]. Mi consolai pensando che andavo a lavorare in una
ditta che faceva giostre. Giostre!, dissi ad alta voce, appena arrivato a
casa, Pensa ti! E in effetti uno non ci pensa, pensai, ma ovviamente ci sono anche le fabbriche di giostre […].
Verso Brendola, periferia diffusa di Vicenza Ovest, uscita autostradale
di Montecchio Maggiore: a prescindere che uno ci vada in autostrada, da
qui deve passare, cioè per uno dei punti di congestione più
irrisolvibili della provincia. In questo punto nero, del raggio di circa
un chilometro, tagliato in due dalla linea ferroviaria, e in tre
dall’autostrada A4, un cavalcavia collega Alte Ceccato, di qua, cioè
dalla mia parte, con Brendola, che è di l�?, e naturalmente convoglia
anche tutto il traffico di umani e di merci provenienti dalle due
rispettive direttrici, cioè quello da Lonigo e area relativa – vocazione
prevalentemente agricola e artigianale -, di l�?, con tutto quello
proveniente da Arzignano-Chiampo-Valdagno- devastati distretti
industriali della pelle, del marmo e del tessile, che esportano e
importano da e per tutto il mondo […].
Quanti sanno che “il centro culturale più frequentato di Francia” secondo l’autorevole Touring Club è sorto proprio sulle ceneri di due opere d’arte? Ebbene sì, tra rue Beaubourg e rue Saint Martin a Parigi, dove adesso si staglia il Centro Georges Pompidou, nel 1975 Gordon Roberto Echaurren Matta-Clark, artista dalla potenza immaginifica e rivoluzionaria, conosciuto ai più semplicemente come Gordon Matta-Clark, concepì Conical Intersect nell’ambito della Biennale di Parigi di quell’anno. Come si suol dire: buon sangue non mente. Gordon – nato a New York nel 1943, insieme al fratellastro Pablo Echaurren, era figlio d’arte: come suo padre, il pittore surrealista cileno Roberto Matta, studia inizialmente architettura alla Cornell University di Ithaca (New York) dove incontra Robert Smithson, uno dei capiscuola della Land art.
Fin dai primi anni ’70 entra a far parte del gruppo “Anarchitettura” (il neologismo nasce dall’associazione dei termini anarchia e architettura) con cui dà una decisa sterzata al concetto tradizionale di architettura, avviando una riflessione di natura sociale riferita all’omologazione suburbana dagli anni ’50 in poi, in una New York sull’orlo della bancarotta, strozzata dalla più grave crisi economica dopo il ‘29 e dalle successive speculazioni immobiliari. Ma Gordon Matta-Clark è noto soprattutto per i “building cuts” con cui ha stravolto nel vero senso della parola l’elemento edificato, ponendolo al centro di nuove prospettive, reali e metaforiche: tramite buchi nei pavimenti e nei solai, fessurazioni di intere pareti e squarci all’interno delle case, intacca l’idea di fissità legata a un immobile, aprendolo al dialogo con l’“esterno” e con la luce che penetra prepotentemente nelle sue maglie, piegandone la struttura al volere dell’artista e trasformandola in elemento d’arte.
Ecco dunque una panoramica, certamente parziale, di alcune delle opere di Matta Clark, le più significative forse all’interno della sua fertile e polimorfa produzione, sicuramente quelle che lo hanno reso a tutti gli effetti una personalità in ascesa nel mare magnum artistico e underground degli anni ’70.
Food (Cibo), 1972 Uno dei primi spazi collettivi sorti nel cuore di SoHo, concepito come un ristorante autogestito diviene ben presto il principale centro aggregativo del milieu artistico newyorkese. Il cibo diviene strumento coesivo di una comunità tramite performance estemporanee ed eventi.
Splitting (Dividere), 1974 Al centro dell’azione performativa vi è la tipica abitazione della provincia americana. Matta-Clark la taglia letteralmente in due creando una profonda, dissacrante cesura nel simbolo per eccellenza del concetto di unità familiare.
Substrait (Underground Dailies) (Sottostrato – Quotidianità del sottosuolo), 1976 e Sous-Sols de Paris (Paris Underground) (Sottosuolo di Parigi), 1977 Si tratta di un percorso esplorativo di alcuni luoghi sotterranei di New York e Parigi, tra questi l’occhio dell’artista si sofferma con precisione meticolosa su catacombe, sezioni ferroviarie, condotti e caveau di alcuni edifici.
Conical Intersect (Intersezione conica), 1975 Nel contesto della Biennale di Parigi del 1975 Matta-Clark concepì uno sventramento-congiungimento di due edifici contigui e gemelli del XVIII secolo in fase di demolizione per far posto all’allora nascente Centre Pompidou. Grazie alla sezione conica dei tagli con un solo colpo d’occhio lo spettatore accostava la visione della Parigi “storica” a quella della nuova e moderna metropoli.
Office Baroque (Ufficio barocco), 1977 Nonostante i numerosi tentativi di riconvertirlo in museo, l’edificio, ultimo lavoro esistente di Gordon Matta-Clark, fu abbattuto nel 1980. La “passeggiata attraverso un arabesco panoramico” come fu definita dall’artista stesso era forse un riferimento al dolore privato per la scomparsa del fratello gemello nel 1976.
Molti dei progetti di Matta-Clark, quasi sempre monumentali e illecitamente rischiosi per artista e fruitori, riguardano l’inevitabile temporalità dell’architettura essendo effettivamente condotti su abitazioni in disuso in zone urbane marginali, destinate a essere distrutte. Gli interventi, tutti documentati dall’artista con fotografie, film e video, che vanno a costituire un corpus artistico a sé stante, rimangono le uniche testimonianze del suo lavoro. Gordon Matta-Clark muore nel 1978, la sua aurea mitica e a tratti eroica e la sua ascesa folgorante rimangono però intatte nel corso dei decenni, moltissimi sono infatti gli artisti contemporanei che ispirandosi fanno di lui un’icona, tra questi: Pierre Huyghe, Michael Sailstorfer, Hans Schabus, Helen Mirra o Francis Alÿs.
«Uno solo poteva ridere mentre De Rossi
diceva dei funerali del Re. E Franti rise.»
Edmondo De Amicis dal libro Cuore
Quella della scena punk e hardcore
italiana (e spazi limitrofi) è una tematica largamente trattata su
molteplici piani, ma ancora controversa, di difficile approfondimento
per chi non l’ha vissuta in prima persona. La generazione che ha
attraversato gli anni zero come decennio formativo, risente molto
dell’esplosione e sfarfallamento dell’universo underground, nonché della
“brutta fine” perpetrata da alcuni leader storici e istituzionalizzati
di quella koinè, il recente sconfinamento dell’indie nella popular music,
il “compromesso” compiuto da molte entità referenti a quel contesto. È
altresì plausibile che oggi, esattamente come nei rumorosi anni Ottanta,
sia ancora tremendamente impalpabile il limitare trasparente tra la
provocazione e l’impegno, tra l’impeto e la razionalità, tra la mordace
dissipazione dei contenuti e la cosciente edificazione di un movimento.
Per un dispositivo analitico efficace è
fondamentale, ancora oggi, fondare spunti e riflessioni sulle
testimonianze dirette di questo frame culturale. Ne abbiamo
moltissima, di letteratura e filmografia, in questo senso (da Marco
Philopat a Federico Guglielmi), ma una “testimonianza diretta” della
scena punx, per essere veramente conciliante con quell’impeto,
non è contenibile in un’intervista o in un documentario tradizionale,
vista l’entità dei dati materici e simbolici, la quantità di figure, il
flash di fulmicotone che deborda dai rumori di uno dei fenomeni
culturali più importanti della storia dell’Italia repubblicana (sebbene
questo peso sia ancora scarsamente percepito).
È inimmaginabile fornire uno storytelling univoco e oggettivato di una deflagrazione ideologica, composta da splendidamente deliranti nuances e indefinizioni. Come fare, quindi? La risposta, formale, ci è suggerita da un volume di recente pubblicazione nel quale le modalità espositive dei testi e la loro collocazione, nonché la loro cornice, adducono grandissima parte dei contenuti che questi racchiudono. Franti – Perché era lì, antistorie da una band non classificata, curata da Luca Buonaguidi e Cani Bastardi, editore Nautilus Autoproduzioni è un’interessante opera di collazione di testi (non documenti, non interviste, ma Testi) provenienti dai polsi plurali di Canibastardi che vuole celebrare la vicenda artistica del progetto FRANTI, storica e inclassificabile band degli anni Ottanta. Tra i contributi esterni al gruppo Canibastardi, spiccano ospiti d’eccezione come Miro Sassolini, il cui testo è accompagnato dalle immagini di Fabio Magnasciutti e Angelo Gambetta. Ci sono poi Pete Wright dei CRASS e lo stesso Stefano Giaccone, leader insieme a Lalli (al secolo Marinella Ollino), del gruppo. Luca Buonaguidi, che ha curato l’edizione, firma alcuni contributi interni, dal piglio espositivo e centrifugo: sfrutta cioè il nucleo argomentativo di FRANTI per condurre addizioni di immagini, riferimenti, giustapposizioni di ampissimo respiro che sono puntuali nutrimenti conoscitivi.
Il libro è diviso in quindici capitoli,
anzi “quindici pietre” citando, attraverso questo gesto, il titolo
dell’ultimo disco di FRANTI, “Il Giardino delle Quindici Pietre”, il
quale cita, a sua volta, l’antica leggenda del tempio di Ryõan-ji
di Kyoto, detto anche “Tempio del Drago della Pace”, in cui – si dice –
delle quindici pietre presenti è possibile vederne, da tutte le
angolazioni possibili, solo quattordici: una resta sempre nascosta dalla
nostra pretesa conoscitiva. Quindici suggestioni, quindi, quindici
nuclei che ridanno l’idea di antagonismo, il corroborante ordigno
poetico post-punk, attraverso molteplici forme: prosa lirica e testi
argomentativi, ibridi narrativi e testi spuri, che ricalcano
perfettamente i vettori espressivi delle fanzine di inizio anni ottanta.
I capitoli mescolano prosa, poesia, fotografia e disegno, e sono
accompagnati da squisite citazioni estrapolate dagli autori più
distanti, che sembrano conciliare il sottofondo rombante di quegli anni;
è quella dilatazione di possibilità ermeneutiche che spinse il
collettivo FRANTI a ordire il più potente dispositivo artistico
anarcoide italiano. La mobilità tentacolare del testo, la varietà
stilistica, che vuole essere disomogenea per meglio consegnare ai
lettori l’attitudine punx, dimostra come il collettivo torinese
fosse, con la sua forte impronta di contaminazione, la declinazione
italiana dei grandi collettivi punk europei e americani.
Nelle note di copertina dell’omonimo e
ultimo disco dei Franti, il più ineffabile, si legge: «Certo: volendo (e
potendo) salire in alto, si sarebbero visti tutti i massi, ma per
gioire di un giardino bisogna camminarci in mezzo», camminarci in mezzo
come le formiche, annullando il pensiero, diventando il pensiero,
cantando il pensiero che si è e si è annullato al contempo. Vanni
Picciuolo scrive: «L’intelligenza combatte contro l’apparenza,
l’illusione e la mistificazione; ma non c’è fumo senza arrosto: è
l’intelligenza che ha nascosto la quindicesima pietra dallo sguardo. Chi
è immerso nel giardino non ha i mezzi per vedere le cose dall’alto, per
tirare fuori il naso dalla merda e capire che esiste qualcosa di più».
In un ipotetico dialogo, gli risponde Stefano Giaccone: «E qui ci stanno
le nostre storie, il nostro lavoro, la nostra cultura, la nostra
tecnica, fantasia, scienza: nostre perché impegnano la nostra vita in un
giardino di pietre. Le quindici pietre costringono a viaggi
d’esplorazione che lasciano sempre indietro, introvata, una pietra
diversa». (Luca Buonaguidi)
Torino negli anni ottanta viveva un
particolare cozzo – simbolico e pratico – determinato dagli effetti
ambivalenti del riflusso. La città-operaia di Mirafiori, dopo il trauma
dei quarantamila quadri FIAT e il successivo deterioramento delle unità
sindacali e operaie, conosce l’avvento della cultura underground,
l’afflato antagonista che non arrivava più dai libretti rossi e dalle
pagine di LC, ma dal collettivo CRASS, da Jello Biafra, dalle
compilation internazionali di Dave Dictor, da Rockerilla, dalla cultura
DIY. Al contrario delle altre città italiane che si fanno capoluoghi del
movimento punx, a Torino non avviene (o avviene solo in parte)
quel contrasto tra antagonismi, che segna profondamente l’evoluzione
del movimento a Milano e soprattutto a Bologna, dove la cesura tra punk e
nomenclature militanti “tradizionali” non avverrà mai e il gioco dei
rovesciamenti retorici, post-ideologici, si trascinerà alle estreme
conseguenze con l’esperienza dei Disciplinatha. Torino, invece, è
terreno fertile per un’edificazione libera di nuove estetiche, di
sciolinature, mescolanze, compenetrazioni. FRANTI traghetta il capoluogo
piemontese dalla sua fase di assestamento al suo ruolo di capitale
della musica indipendente italiana nei tardi anni Ottanta e primi anni
Novanta.
«Noi siamo un gruppo musicale
autonomamente definitosi, nella misura in cui reputiamo la cultura
antagonista nei contenuti e, soprattutto, nelle forme uno specifico
motore rivoluzionario del movimento. Pensare, discutere, suonare,
scrivere, sperimentare cose che hanno sempre fatto parte del nostro modo
di essere come collettivo di persone, in questi anni fuori da ogni
business e logica di mercato.» (FRANTI)
Se ne desume che il progetto FRANTI
fosse, a metà degli anni ottanta, l’unica realtà italiana capace di
dialogare con ciò che avveniva in Inghilterra e in Germania nello stesso
periodo, irradiando con la stessa forza dei CCCP – forse finanche
maggiore – una certa idea di produzione artistica. Quanto più vicini al
dettame mcluhaniano medium is the message, FRANTI ha percorso
la linea avvoltolata dell’Alt-Rock europeo a cavallo tra gli anni
Settanta e gli Ottanta, iniziando come band compostamente prog
canterburiana per poi dissociarsi dall’insieme dei complessi progressive
italiani, quando quell’esperienza era divenuta troppo autoreferenziale.
Convogliati nell’insieme atmosferico della New Wave, sposano il
pubblico delle aree autonome e i centri di produzione dell’hardcore, nei
nascenti centri sociali, senza radicalizzare alcuno stilema, musicale,
ideologico, estetico o poetico definitivo, ma assimilandoli tutti e
proponendoli in forma assolutamente originale ed efficace. I criteri
transmediali delle loro multiformi poetiche erano simili a quelli dei
CRASS: la profonda consapevolezza artistica, la pretesa – riuscita –
intellettualistica, l’impavida scioltezza di mescolare il free jazz al
punk, la tradizione cantautorale italiana, le canzoni di protesta e il
blues al progressive.
Emblematiche sono le interpretazioni di Robert Johnson e di Bob Dylan,
sia durante i live collettivi, così come (è il caso di quella di Dylan)
nello split condiviso con i – decisamente più ruvidi – Contrazione
(fratelli, da parte della stessa madre musicale – la band 5° Braccio
dalle cui ceneri si sono costituiti – dei più noti Negazione). In altre
occasioni FRANTI canta i versi di Cesare Pavese sopra le chitarre
distorte, senza un apparente metodo, senza una struttura, secondo un
codice comportamentale assolutamente punk rock, rispondendo a mere
urgenze espressive, come il discolo raccontato da De Amicis da cui il
collettivo prende il nome, nel pieno afflato che quella vallata
spaziotemporale respirava.
In quel panorama di creste, spille, jeans
strappati, birre e birre e birre e tipi, finalmente,poco da provincia
piemontese, arriva sul palco un gruppo che di punk, in senso estetico,
non ha una bella minchia di niente! Intorno si respira un’aria di
profondo rispetto. Il pogo lascia il passo a un ascolto consapevole, le
birre vengono momentaneamente riposte nelle loro fondine, il tipo
dall’aria fusissima che mi basculava accanto fino a cinque minuti prima
sembra un leone addomesticato. Nessuno lo ha riempito di calmanti; e la
potenza dolce ma ferma delle parole dei testi dei Franti. Resto un po’
colpito dal quietarsi del casino e dal fatto che queste persone cosi in
apparenza diverse, vibrino in modo uguale. (Guido Rossetti)
Essere punk era innanzi tutto essere indefinibili, ineffabili, l’epitome di cui i FRANTI si fanno simboli, esempi di genuinità e dilatazione artistica. Nell’ottantasette si fermano e raccolgono il materiale inedito in “Non Classificato”. Un altro titolo-emblema che ribadisce il totale disallineamento da una qualsiasi forma di categorizzazione. Stefano Giaccone d’altronde ha sempre avuto le idee chiare sulla sua presumibile collocazione all’interno dello spazio culturale: «Noi non abbiamo mai suonato punk, tra l’altro per noi non è mai stato – e credo per altri gruppi che ci circondavano – un genere musicale. io “sono” punk, non sono un “punk”» afferma fieramente in una delle poche interviste che si trovano in rete.
I Franti scelsero anche di non
distribuire foto di sé stessi durante gli anni di attività del
collettivo: in un articolo apparso su Rockerilla, chiesero di
pubblicare, al posto delle loro foto, i dati in forma grafica dei morti
per tossicodipendenza in Italia dal 1973 al 1982, accanto a quelli sulla
salute dei lavoratori di uno stabilimento Barilla in provincia di
Parma. Così con questi stessi criteri non categorizzabili, nel verso
libero del pensiero, la dinamica caustica del punk, il coacervo
anarchico delle parole, con la stessa struttura che de-struttura i
significati, con la poetica pungente delle fanzine basiche e originarie,
l’autoproduzione Nautilus Franti – Perché era lì, antistorie da una band non classificata ci
fornisce un impianto idealistico, una reificazione del concetto di DIY.
Il libro è per scelta «senza (e contrario al) copyright e ne invitiamo
alla diffusione con qualsiasi mezzo, come di prassi per tutto ciò che
concerne Franti», ed è un piacere quantomeno sfogliarlo per perdersi
nelle parole, nelle immagini, nel vorticare delle ellittiche di quello
splendido e fulgente periodo storico. Assolutamente Storico e Sociale,
prima che culturale.
Per ulteriori e affini illuminazioni:
Serena Zuccheri, Punk in Cina: nuovi fuochi di rivolta dopo Tiananmen, Castelvecchi, 2004
Marco Philopat, Lumi di punk: la scena italiana raccontata dai protagonisti, Agenzia X, 2006
Diego Nozza, Hardcore. Introduzione al punk italiano degli anni ottanta, Edizioni Crac, 2011
Tommaso Ghezzi è nato a Sinalunga nel 1989. Scrive di cultura, spettacolo e costume su magazine e riviste locali toscane. In ambito teatrale collabora, in vesti diverse, con il Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano, la Fondazione Teatro Orizzonti di Chiusi e con l’Accademia degli Arrischianti di Sarteano. Ha lavorato come speaker radiofonico, bibliotecario e operatore culturale. Chitarrista virtuoso mancato, si diletta ascoltando gigabytes di musica, guardando terabytes di film e leggendo tonnellate di libri.
Medicamenta usciva nel 1982 con un’epigrafe dedicata alla seduzione della parola. Ancora all’altezza di Lezione d’amore
(2004) la parola è un’esigenza; penso alla prosa finale in cui
leggiamo: «da resuscitare con altre parole che sento come parole
dell’amore per le parole, nel calmo piacere senza pericolo che è il
piacere dell’ordine e della simmetria». L’attenzione nei confronti della
parola emerge anche dall’ampia tastiera linguistica della sua poesia,
dal suo lavoro di traduzione e dalla critica al depauperamento della
lingua italiana. Ce ne parla?
«La mia lingua mi appartiene come il più
profondo dei miei istinti», diceva D’Annunzio. Fosse vero anche per me!
Invece la lingua è per me un amore vicario, sostitutivo: voler possedere
tutti i dizionari – dall’Acharisio del 1543 al Grande Dizionario Utet –
per studiare, dominare e controllare la lingua è stato molto
probabilmente per difendermi dall’angoscia, per un bisogno di ordine, di
sistematicità da collezionista, una strategia contro la morte. Di
quando non possedevo che il Devoto ricordo questo, e lo confesso per la
prima volta, care ragazze appassionate di Raboni: quando avevo tredici –
quattordici anni le mie compagne avevano dei corteggiatori e io non
avevo nessuno; ero considerata una «racchia», mi chiamavano «befana
beat». Allora mi sono detta che dovevo fare qualcosa, dovevo migliorare
la mente se non potevo migliorare il mio aspetto; e ho cominciato a
leggere e a annotare tutte le parole che non conoscevo. Ho scoperto così
il piacere della poesia, del romanzo, e del cinema in bianco e nero. A
sedici anni non parlavo più la lingua degli altri, come le mie compagne,
ma una lingua che era solo mia, e mi vestivo soltanto con vestiti
usati. Qualche anno fa sono stata fidanzata con un bellunese, e sapete
cosa ho scoperto? Che ero considerata, allora, prima di avere scritto e
pubblicato – un «mito»!
Nel 1991 esce Donna di dolori, che verrà ripubblicato nel 1998 nella raccolta Prima antologia, insieme a Corsia degli incurabili (1996) e a Carteggio (1988). Se si trattasse di un’effettiva “prima antologia”, Requiem
(1994) dovrebbe figurarvi; invece, sembra una selezione ragionata, che
pare instaurare un nuovo legame e rinnovare il senso di ogni raccolta
alla luce di questo inedito accostamento. Così accade anche per la prima
centuria di Quartine d’amore (1997), dove convergono La tentazione (1985) e due traduzioni (Fedra e Erodiade). Le ripubblicazioni definiscono effettivamente un nuovo legame tra le raccolte? In che modo?
Non saprei. So che ho ripubblicato, grazie all’editore Einaudi, delle raccolte che non erano più in commercio e che Mondadori (Donna di dolori), Garzanti (Corsia degli incurabili) e Crocetti (La tentazione) non intendevano più ripubblicare. E ho aggiunto, dove mi è sembrato più sensato, delle cose inedite a cui tenevo, come il Carteggio.
«I piccoli imitano, i grandi rubano» leggiamo in Lezione d’Amore.
La sua poesia è spesso puntellata da citazioni di alcuni autori
prediletti; tuttavia è interessante notare un doppio atteggiamento
nell’impiego della citazione colta: se da un lato il riuso non viene
denunciato, dall’altro la sua poesia strizza l’occhio al lettore attento
suggerendo significati ulteriori (penso ad esempio al caso della quinta
quartina, che non solo cita direttamente il modello – il carme 5 di
Catullo – ma ne acquisisce anche la medesima posizione all’interno del
“Liber valdughiano”; oppure al tessuto di citazioni che troviamo nel
poemetto La tentazione, segnalato spesso dal corsivo).
La tentazione è un vero e proprio
«centone», è un dialogo tra un uomo e una donna, e il corsivo è quando
parla lui. Su questo tema ho scritto un piccolo saggio, dedicato a Maria
Antonietta Grignani per i suoi settant’anni, che s’intitola Confessioni di una ladra di versi [in La scatola a sorpresa. Studi e poesie per Maria Antonietta Grignani, Franco Cesati Editore, 2016]. Cito la fine:
E così solo adesso, quasi decrepita,
capisco perché ho rubato tanti versi: per rendere omaggio, certo, ai
poeti che amo, ma soprattutto perché molti di questi versi, non a caso
tematicamente ricorrenti, mi riguardavano profondamente. Così da qua e
là il rampino ha preso una quantità di catene, croci et similia: «già
incatenata, e senza una catena» (Michelangelo), «sotto mille catene e
mille chiavi» (Petrarca), «fammi la guardia come un carceriere» (József –
Albini), «chiuso sarai nella trappola e preso» (Isaia – Ceronetti),
«tra spine e chiodi l’una e l’altra palma» (Michelangelo), «questa
crocefissione senza croce» (Arghezi – Cugno), ecc. Né si è lasciato
sfuggire infanzie e infantilismi: «mi manchi, tenera come bambina, /
tenera e vuota, bambina mia vuota» (Berryman – Perosa), «che sia troppa
l’infanzia ai nostri amori?» (Pizzuto), «lontano, molto in fondo alla
mia infanzia (Beckett – Fruttero e Lucentini) / Ma cosa? sfinge, enigmi»
(Beckett – Fruttero), «cercarmi piccola e senza radici» (Lorca – Bo),
ecc. Né, infine, ha tralasciato un senso di esclusione, se non di colpa:
«dell’umana natura posta in bando» (Alighieri), «del mio cuore umiliato
e maledetto» (Rebora), «unico verme di un sepolcro chiuso» (Pascoli),
«che umiliazione per un po’ di affetto» (Illyés – Albini), «o mondo
ammutinato» (Rilke – Traverso), ecc. Nel mio ultimo libro, Libro delle
laudi, il più «informe» di tutti i miei libri – ultimo per davvero,
perché chiude la mia vicenda poetica arrivando in fondo alla mia
infanzia, finalmente – ci sono questi due distici: «Ladra di versi ho
fatto il verso ai versi / per l’amore che non sapevo dare. / Ho fatto
versi sempre più perversi / per uscire da me e riposare». Il primo va
bene; il secondo no, è sbagliato. Non è stato per uscire da me, è stato
per entrare sempre più dentro di me per «dirmi» la mia ferita. Fino a
che punto, allora, i miei versi mi appartengono? Non so quanto ho
«meditato» i versi degli altri, ma so che rubando ho «obbedito» molto
spesso a un’«ispirazione» profonda, e che anche i furti in apparenza più
«estranei» sono stati – oggi ne sono sicura – messaggeri, araldi,
«άγγελοι» di me a me stessa (e questo è D’Annunzio).
A questo proposito, nel Libro delle laudi
(2012) lei scrive: «Una tua poesia, basta una sola, / basta a sbalzarmi
il cuore fino in gola». La poesia di Giovanni Raboni si affaccia spesso
tra i suoi versi, a volte denunciata, a volte no. Qual è il senso della
parola raboniana all’interno della sua poesia?
Ho l’impressione di aver «sentito» subito
quello che avrei capito nel tempo: io non sono che un piccolo epigono,
che ha usato la poesia come anestetico, ansiolitico; Raboni è uno dei
più grandi, talmente grande che ha fatto scuola anche a quelli che lui
chiamava i suoi maestri. Il suo amore per la poesia è istintivo,
profondo e disinteressato. Perché siamo in pochi a sapere tutto questo?
Perché, in tutta la sua vita, non ha mai chiesto una recensione o fatto
una telefonata per un premio… Gli altri poeti, quando non vergano i loro
manufatti, passano il tempo ad autopromuoversi. Se c’è qualcosa di
buono in me, l’ho imparato da lui, dai suoi versi e dalla sua persona.
I componimenti di apertura del Carteggio, inserito in Prima antologia,
rivelano per acrostico le firme degli autori: Luigi Baldacci
presumibilmente è il poeta “incognito e multiplo” che risponde per
tenzone. Dagli anni Settanta si recupera l’uso del sonetto per tenzone:
penso a quelli tra Fortini e Zanzotto, o alla sfida tematica lanciata da
Beccaria dalla rivista Sigma (1983) circa la funzione e il senso del grande stile nella contemporaneità. Che valore ha, oggi, un esercizio del genere?
Nessuno. Quando ho letto per la prima volta la Recherche
mi sono innamorata a prima vista di Charlus, e quando ho visto per la
prima volta Baldacci mi è sembrato di vedere Charlus. Siamo diventati
amici – lui era già amico di Raboni -, e ci sentivamo ogni giorno al
telefono. Quando da Spoleto gli ho detto che la puntura di una zanzara
locale mi aveva sfigurata, ha scritto un sonetto per me. Gli ho risposto
per le rime, abbiamo continuato questa corrispondenza scherzosa, ed è
nato il Carteggio.
La dimensione teatrale è uno dei
motori della sua poesia: la posa attoriale si esperisce nella sua
scrittura col gesto metapoetico, con i monologhi, con i dialoghi;
d’altra parte sono note le sue interpretazioni di componimenti interi,
suoi e altrui. Ci parli del ricorso a questa forma.
In verità, non ho mai pensato, scrivendo,
al teatro; né mi sono mai considerata un’attrice leggendo i versi miei o
di altri. Tanto tempo fa, in un’altra vita, Elvio Fachinelli mi ha
detto che ero una persona «costretta dall’angoscia a rappresentarsi».
Forse questa «teatralità» è nella mia natura psichica o, meglio, è il
risultato della mia storia psichica.
Nella sua poesia è frequente
l’impiego di vocativi: l’Io lirico invoca la divinità, gli affetti e
finisce per apostrofare persino se stesso, in un gioco di sdoppiamento. È
in questo senso che alcuni componimenti appaiono come delle effettive
preghiere: tra le altre raccolte, in Requiem leggiamo: «Oh no, non lui, Signore, prendi me, / che sto morendo più di lui, Signore, / liberalo dal male e prendi me!»; ne La tentazione
ancora: «E mentre brucio in tal rimescolio: / “O Padre nostro scenda il
tuo perdono, / annienta tu questi demoni ch’io / sola non so… di te
degna non sono”». Qual è il senso della preghiera? Ha un valore
religioso?
La mia educazione è cattolica, la maggior
parte degli autori che amo è di educazione cattolica. Pregare mi viene
spontaneo, ma non per me (come nella Tentazione, dove i versi
non sono miei), solo per gli altri, quando non so più che cosa fare,
quando non c’è più niente altro che io possa fare.
Lo smantellamento dell’identità presente in Donna di dolori e Requiem
(«fammi uscire da me») si esperisce nella ricerca di un’unione mistica e
carnale con l’altro, o con l’arte più in generale, nell’orbita di un
bisogno viscerale di completamento dell’Io. Ciò trova compimento nel
“delirio di breve durata” dell’amore totalizzante che annienta l’Io di
Lezione d’amore («l’amore è ciò che manca, è l’io che manca», «sempre
più indivisibile e indivisa»). Tuttavia, nel Libro delle laudi,
sembra esserci una palinodia; leggiamo: «quante scemenze ho scritto nei
miei versi sulla notte, sul sesso e sull’amore». Potremmo affermare che
questa raccolta rappresenti uno scarto e un nuovo divario tra l’Io e
l’altro?
«Smantellamento dell’identità»? No so
cosa sia. Non c’è niente da abbattere o demolire. La nostra identità è
la nostra storia in rapporto con la storia degli altri. Voi citate due
raccolte sulla morte e due sull’amore; così forse posso cercare di
cavarmela con una citazione bellissima da Proust: «Una somiglianza fra
amore e morte, piuttosto che quelle, così vaghe, di cui si suole
parlare, è che l’uno e l’altra ci spingono a indagare più a fondo il
mistero della personalità, nel timore che la sua realtà si dissolva». Ma
il dissolversi nella morte è una cosa, l’estasi erotica un’altra.
Giada Coccia, Fabiana Di Mattia, Irene Martano e Francesca Santucci sono studentesse di lettere classiche e moderne all’Università degli studi di Siena. Nel 2015 hanno fondato il collettivo TibiAras, con Mariantonietta Confuorto. Nel 2016 hanno curato un ciclo d’incontri dedicato a Giovanni Raboni; gli atti della tavola rotonda “Giovanni Raboni. Prima e dopo le Canzonette” sono in corso di stampa sulla rivista Per leggere.
Tempo. Lo sento in me, dappertutto. Ma non so cos’è.
Zero K è il sedicesimo romanzo di Don DeLillo, il maestro della narrativa americana che, più di altri, ha dato corpo a visioni e personaggi tali da fungere come utili metafore del presente che viviamo ogni giorno. La forza della sua scrittura risiede in un duplice movimento: da una parte astrae il dato e lo riconnette all’orizzonte culturale della contemporaneità, dall’altro materializza i rapporti di forza – culturali, sociali, economici, linguistici – che si celano nei nostri processi cognitivi (ne parlo più diffusamente su Ultima Pagina). Zero K rappresenta il punto di rottura con una certa idea di canone umanistico e pone le basi per una seria riflessione sul rapporto fra l’uomo e la tecnologia.
Per indagare il mutamento del reale
l’autore si è sempre avvalso di un duplice strumento: l’immagine e il
linguaggio. L’immagine è trattata nell’ambivalenza di simulacro e
generatore simbolico, il linguaggio invece è percepito come materia
prima con cui fabbrichiamo le nostre categorie. Nella produzione degli
anni ’70 (Americana, End Zone, La stella di Ratner, Giocatori)
la componente linguistica dava conto dell’entropia del sistema, e dunque
abdicava dalla sua funzione ordinatrice, ancor prima che da quella
comunicativa. Nella produzione successiva (quella che viene indicata
come “realismo postmoderno” e che coincide con Rumore Bianco, Mao II, Underworld)
il linguaggio produce una realtà tangibile, è un sedimento capace di
incidere nella complessa realtà cognitiva degli esseri umani. In Zero K DeLillo
riprende le fila di questa riflessione: Ross Lockhart è un magnate
della finanza, il suo nome è uno pseudonimo, crede così di poter
risultare inafferrabile, la sua identità è occultata da un avatar,
l’immagine della sua funzione nella società che annichilisce la
soggettività. Questa è una delle poche argomentazioni che DeLillo
riprende dalla sua produzione passata. Se cambia la società cambiano
anche le tesi dell’autore: in questo momento storico a essere cambiata è
la componente tecnologica, che ha subito un’accelerazione come mai
nella storia umana, a allo stesso modo è mutata la coscienza con cui ci
rapportiamo a essa.
L’intreccio di Zero K è esile
come tutti i romanzi di DeLillo: nel prologo Jeffrey Lockhart – figlio
del miliardario Ross – raggiunge Converge, un centro di sospensione
criogenica ubicato nel sottosuolo del deserto uzbeko. All’interno la
seconda moglie di suo padre, Artis, si prepara a essere ibernata per
ingannare gli esiti di una malattia degenerativa e mortale. Suo marito
la assiste e, affascinato dall’idea dell’immortalità, medita di seguirla
a breve, l’incontro con il figlio Jeffrey sarà l’occasione per
comunicargli la scelta. I personaggi di DeLillo funzionano come
catalizzatori delle paranoie contemporanee, sono degli “idioti” che si
rendono conto a fatica delle proprie deformazioni, la dialettica fra
soggetto e mondo origina una riflessione che coinvolge anche il lettore,
il ritmo narrativo inscena un movimento di progressiva rivelazione.
Rispetto ai suoi predecessori Jeffrey Lockhart sembra possedere un
maggior grado di autocoscienza: ragiona per categorie romantiche,
ancorate alla morale e all’umanesimo, crede che le idee del padre siano
folli utopie, minacce da estirpare. Nella sua visione si percepisce
l’ansia di un mondo moderno che sente approssimarsi la fine: la società
dominata dalla tecnica ha superato di gran lunga l’immaginario e il
desiderio dell’uomo, l’interpretazione non riesce a negoziare un
paradigma sostenibile, Ross ha preso coscienza della propria
inadeguatezza, Jeffrey fatica ad accettarlo.
Ross crede nella rivoluzione tecnologica,
ha fede nella tecnica che trascende i limiti dell’umano e che si
presenta come una nuova fede pagana. Gli scienziati di Converge agiscono
come una setta, frammenti dei loro sermoni ci aiutano a capire le nuove
coordinate tracciate da DeLillo: «La tecnologia è diventata una forza
della natura. Non siamo più in grado di controllarla», o più
diffusamente:
E voi che tornerete in superficie: non ci
avete fatto caso? Alla perdita di autonomia. Alla sensazione di essere
ridotti a uno stato virtuale. I dispositivi che usate, quelli che
portate ovunque, di stanza in stanza, di minuto in minuto,
inesorabilmente. Vi sentite mai scarnificati? Tutti gli impulsi
decodificati ai quali affidate il compito di guidarvi. Tutti i sensori
presenti in una stanza che vi guardano, vi ascoltano, tengono traccia
delle vostre abitudini, misurano le vostre capacità. Tutti i dati
interconnessi che hanno lo scopo di incorporarvi all’interno di
megadati. C’è qualcosa che vi rende inquieti? Pensate a un virus
tecnologico, a un crollo di tutti i sistemi, all’implosione globale?
Oppure è qualcosa di più personale? Vi sentite immersi in una specie di
orribile panico digitale che è allo stesso tempo ovunque e da nessuna
parte?
Il sorgere di questa fede
mistico-positivista fa il verso all’ideologia della Silicon Valley,
ovvero l’illusione reale che la tecnologia possa porsi come nuova
corrente te(le)ologica. In realtà lo sviluppo della tecnica si radica
nell’immanenza, non compete la metafisica ma riguarda l’ontologia. Nel
1985 DeLillo scriveva Rumore bianco: Jack Gladney, padre di
famiglia e prototipo del maschio bianco americano, è ossessionato
dall’idea della morte, l’unico modo per tacere le sue paure e procurarsi
un potente psicofarmaco, il Dylar, capace di propiziare l’oblio. Si
supera il concetto di morte ma non la sua realtà fisica, e per di più ci
si avvale di un’invenzione romanzesca. Nel 2016 la situazione cambia
radicalmente: l’ambizione della sospensione criogenica è ingannare la
morte del corpo, introdurre a una vera vita eterna, e questa non è una
fantasia, ma ciò che si ricerca in vari parti del mondo, con centinaia
di persone che hanno deciso di sottoporsi ai trattamenti di tale
tecnologia (allo stesso modo sono reali le ambizioni di Elon Musk di
colonizzare Marte, “salvare” la razza umana attraverso la fuga
interplanetaria). L’eternità è a portata di mano – o almeno la volontà
di raggiungerla – siamo sicuri di riuscire a sopportarne l’idea?
Un altro elemento su cui si fonda Zero K è
il rapporto padre-figlio. Nella letteratura contemporanea la tematica
della morte del padre è di primaria importanza: nel regime di edonismo
terminale in cui versa la nostra società il Padre abdica dalla sua
funzione repressiva, aprendo la strada alla coazione del piacere a tutti
i costi, un’ansia performativa che ci pervade con la trasformazione
della nostra soggettività in progettualità perenne (sul tema consiglio
l’esplicativo Psicopolitica di Byung-Chul Han, edito da poco per Nottetempo). In Zero K è
la figura della Madre a venire meno, la funzione generatrice della
Natura, il legame fra umano e biologico, che è soppiantato dall’ubiquo
paesaggio culturale, dall’artificialità totalizzante dello sviluppo
tecnologico.
Al contrario il Padre non muore, il Padre vuole vivere, eternarsi
nel limbo criogenico. Nella contemporaneità dominata dalla tecnica
naturalizzata saltano le genealogie e l’avvicendamento generazionale, la
trasmissione di sapere si polverizza nella nebulosa di informazioni che
fanno a meno della nozione del tempo (lo vediamo già con il fenomeno
dell’information overload). Il simbolico non riesce più a porsi
come sintesi dell’immaginario: in Converge si proiettano a ciclo
continuo notiziari di guerra, filmati di torture, omicidi, catastrofi;
il simulacro si volge nella reificazione più totale, non vi è
trasmissione culturale se non quella del dato nudo e crudo, dello
scenario apocalittico che rappresenta il momento negativo di una
dialettica in cui la tecnologia può presentarsi illusoriamente come
tentazione e via di salvezza. Se il biologico si appiattisce in un
eterno senza tempo, il metafisico non è più categoria pensabile, giacché
è tutto fisico, tutto reificato prima nel feticismo della merce e poi
nella progressione amorale della tecnica. Se è vero che «la catastrofe è
incorporata nel nostro cervello primordiale», il mondo a venire – che
getta le basi nella distruzione di un futuro pensabile che stiamo
vivendo oggi – sarà «una fuga dalla nostra personale mortalità. Dalla
catastrofe. Qualcosa che sconvolge tutte le debolezze e le paure del
nostro corpo e della nostra mente. Fronteggiamo la fine, ma non siamo
soli. Ci perdiamo nell’occhio del ciclone». Per adesso non possiamo
guardare il domani, e il presente ha la pupilla vuota di un volto
conservato nell’assenza (o nella saturazione) del tempo.
Giovanni Bitetto nasce ad Andria nel 1992. Attualmente risiede a Bologna, città in cui studia Italianistica. Da sempre appassionato di musica e letteratura, ha scritto per varie fanzine e blog. Collabora con la rivista online di arti indipendenti Rivista!Unaspecie. Ha fatto parte di diverse antologie di racconti patrocinate dal collettivo Wu Ming. Ha pubblicato racconti su Nazione Indiana. Nel tempo libero mangia gelati, guarda match di wrestling e ascolta noise.
Oggi è il 25 aprile e tutta l’Italia resistente celebra la Liberazione. Noi abbiamo scelto di farlo parlando di In territorio nemico (minimum fax, 2013), primo romanzo scritto col metodo SIC, da 115 autori. Qui sotto vi proponiamo la riflessione che i due fondatori del metodo, gli scrittori Gregorio Magini e Vanni Santoni, hanno fatto in occasione del secondo appuntamento di Costruire storie, poi confluita nel nostro ebook #costruirestorie. Presenteremo In territorio nemico a Siena il 28 maggio, alle 18, presso la Libreria La Zona.
di Gregorio Magini e Vanni Santoni
Genesi della SIC
Oggi tutto
ciò che concerne la cosiddetta “produzione di contenuto”, va nella
direzione della condivisione e della produzione collettiva. La nostra
sensazione era dunque che anche la letteratura dovesse provarci. L’idea
di dedicarci a un progetto di scrittura collettiva è venuta innanzi
tutto dalla nostra idea della letteratura come fatto sociale: ci siamo
formati lavorando a una rivista autoprodotta, e quindi per noi era
normale cercare l’interazione tra autori. Da questa necessità, e dalla
nostra esperienza in altri ambiti di produzione collettiva di contenuto,
quali giochi di ruolo e software libero, nacque il primo embrione SIC.
Da un punto di vista tecnico, invece, il metodo SIC nasce dalla
volontà di superare la scrittura collettiva “a staffetta” – quella, per
intenderci, dove ognuno scrive un pezzetto e poi “passa la mano” – e
dare vita invece un metodo di scrittura veramente collettivo, che
permettesse la produzione di opere coerenti e la partecipazione di tutti
gli scrittori a tutte le parti dell’opera.
L’inserimento del termine “Industriale” nel nome era innanzitutto una
provocazione verso gli oppositori “a priori” della scrittura collettiva,
in particolare coloro che, rifiutandosi di vedere nella scrittura
collettiva la possibilità di un’arte diversa dalla scrittura
individuale, contestavano una sua presunta “spersonalizzazione” del
gesto artistico, ma in realtà essa rimanda anche all’effettiva divisione
del lavoro prevista dal metodo SIC.
Metodo SIC
I principi chiave del metodo SIC sono la divisione del lavoro, su cui spicca la distinzione tra chi crea i materiali testuali – gli Scrittori – e chi coordina e compone, ma non è autorizzato a scrivere una sola parola – i Direttori Artistici) e la scomposizione della narrazione nei suoi elementi costitutivi, tramite schede (personaggio, luogo, situazione, etc.) che solo successivamente vengono ricomposte. Ogni scheda viene infatti compilata individualmente da tre o più Scrittori; il DA ritira le schede individuali e le compone, dopo di che rimanda la scheda definitiva agli Scrittori, che la leggono e la fanno propria. Prima si realizzano le schede degli elementi strutturali, come ambientazione e personaggi, e successivamente si passa alle schede della stesura vera e propria. Il processo di composizione è la principale invenzione del metodo SIC: consiste nel prendere le parti migliori e più coerenti di ogni scheda individuale e di comporle, appunto, tutte insieme, in modo da ottenere una scheda cosiddetta “definitiva” di qualità superiore alle singole individuali. Il metodo è stato rodato tramite la realizzazione di racconti. Il primo, Il Principe, è servito a testare gli strumenti base – schede personaggio, schede luogo e schede stesura; col secondo, Un viaggio d’affari, oltre che approfondire detti strumenti, abbiamo testato il metodo sui contenuti simbolici; col terzo, Alba di piombo, abbiamo lavorato su una storia lunga e con un gran numero di personaggi e luoghi; col quarto, Notturni per ipermercato, abbiamo testato il metodo senza il lavoro dei suoi fondatori – anche la direzione artistica era affidata a uno scrittore SIC reclutato attraverso il sito. Gli esiti possono essere giudicati direttamente dai lettori dato che tutti i racconti – questi quattro e gli altri quattro prodotti successivamente – sono reperibili e leggibili sul nostro sito. Allo stesso modo, chi volesse approfondire il metodo, può trovare un manuale dettagliato a questo indirizzo: http://www.scritturacollettiva.org/documentazione/manuale-di-scrittura-industriale-collettiva
Industriale e collettiva
Scriveva
Michele Marcon (tra gli autori SIC) su Finzioni: “[…] a pensarci bene
l’aspetto più interessante della SIC non è tanto il fatto che sia
Collettiva, ma è il suo essere Industriale. Ovvero: tu che credi di
essere un (grande) autore chiuso nella tua stanzetta, e ti fai un sacco
di pippe mentali mentre scrivi un (grande) romanzo rivoluzionario che
probabilmente non leggerà mai nessuno (e che altrettanto probabilmente
rimarrà un tentativo velleitario). Ecco, tu non sei più nessuno. Tu non
esisti più. Tu, stereotipo del (grande) autore, oggi sei un operaio che
insieme ad altri operai deve collaborare per riuscire a realizzare un
prodotto. Certo, questo prodotto non è mica un prodotto qualsiasi, ma è
un’opera dell’intelletto – che dico – degli intelletti!”
Partendo da questo spunto, la nostra opinione è che si debbano
distinguere due aspetti dell’autorialità: l’autore come idea dello
scrittore e l’autore come idea del lettore. Il primo è un marchio di
legittimità: io scrittore scrivo così tanto e/o così bene da aver
conseguito la patente di parola, che è appunto il titolo di autore.
L’autore è uno scrittore con bonus: mentre la dimensione dello scrittore
è la scrivania, l’autore si rivolge alla società, è una voce nel
dibattito della società civile. Questa proiezione all’esterno
dell’autore è in contraddizione con la vocazione dello scrittore, che è
quella di mantenere un rapporto di comunicazione con se stesso e con i
fantasmi dei lettori.
L’autore, dal punto di vista del lettore, è qualcosa di più. Vale il
discorso dell’autore come autorità, ma subentra una questione più
connessa all’opera, che è l’idea dell’autore come principio ordinatore
del testo. L’autore, per il lettore, è soprattutto quella figura ideale
che trasforma uno sciame di lettere in un discorso di senso compiuto, di
più, in una storia, ancora di più, in una storia che vuole dire
qualcosa e quello che vuole dire è importante.
Un’impresa collettiva si rapporta in modo diverso ai due aspetti. Il
primo cambia completamente senso, è sabotato. Chi lavora a un’opera
collettiva non sa che cosa sta dicendo, non può quindi prendersene la
responsabilità, quindi né colpa né merito. La sua voce si è persa nella
sintesi dell’opera collaborativa. Alla società civile arriva qualcosa
scritto da cento persone, che è come dire, non si sa da chi. L’opera è
senza contesto, è indifesa. Ma, allo stesso modo, è indifesa la comunità
che la riceve. Foucault sosteneva che l’autore non sia in sostanza che
il filtro della parola, il congegno di contenimento del suo potere
dirompente. L’opera collettiva, secondo questo punto di vista, dirompe
di più.
Diverso è il discorso del rapporto tra lettore e autore. Poiché per il
lettore l’autore è il principio ordinatore dell’opera, è secondo noi
necessario, in un’opera collettiva, riprodurne le caratteristiche. Il
lettore deve poter interloquire con qualcuno. Se questa persona non
esiste, deve essere simulata. L’importanza data nel metodo SIC alla
coerenza del risultato finale, e quindi alla revisione, ha proprio la
funzione di riprodurre “in vitro” le caratteristiche “naturali”
dell’autore.
Il “Grande Romanzo Aperto SIC”
L’obiettivo
ultimo del progetto, fin dalla nostra prima dichiarazione d’intenti
scritta nel 2007, rimaneva comunque quello di scrivere un romanzo a
moltissime mani “che fosse innanzi tutto un buon romanzo”.
Inizialmente le mani avrebbero dovuto essere 100 (50 autori),
poi, grazie alla visibilità ottenuta dal progetto sulla stampa
nazionale, siamo riusciti a raggiungere i cento scrittori e, dunque, le
famose 200 mani. “Grande Romanzo Aperto SIC” è il nome di lavorazione
che utilizzavamo ad opera in corso. Il libro, che sarà un romanzo
storico ambientato nell’Italia occupata dai tedeschi, si intitolerà In territorio nemico.
I lavori sono cominciati nel febbraio 2009 (la scrittura è iniziata
ufficialmente il 25 aprile 2009) e si sono conclusi nel luglio 2012.
Era inoltre nostro desiderio che il “Grande Romanzo”, a differenza dei
racconti scritti fino a quel momento col metodo SIC, non si basasse su
un’idea di storia decisa da noi o da uno dei coordinatori, ma su un
soggetto originale stabilito collettivamente dai partecipanti. Abbiamo
dunque chiesto agli scrittori di inviarci storie e aneddoti di fatti
accaduti a loro parenti o conoscenti durante la Seconda Guerra Mondiale
in Italia. Potevano inviare quello che desideravano, l’importante era
che si trattasse di storie tramandate per via orale. L’iniziativa ha
avuto successo e abbiamo ricevuto dagli iscritti oltre 200 pagine di
materiali di ogni genere, con un’ampia distribuzione geografica.
Ovviamente partigiani, tedeschi, fascisti e alleati facevano la parte
del leone ma c’era di tutto: storie di bombardamenti, di salvataggi
rocamboleschi, di viaggi disperati, di incontri fortuiti, di lavoro
nelle fabbriche di armamenti, e poi francesi, gallesi, marocchini,
indiani, anarchici, monarchici, preti, massoni, anziani, bambini,
disabili, ragazze in fiore, energumeni… Sulla base di questi aneddoti
abbiamo elaborato il soggetto: si tratta di un romanzo storico che
racconta le tre storie parallele di un ufficiale di marina sbandato dopo
l’armistizio dell’8 settembre 1943, che sceglierà di unirsi alla
Resistenza, di sua sorella, rimasta sola e in gravi difficoltà in una
Milano bombardata, e del marito di lei, che trascorre tutta la guerra
imboscato in un solaio in campagna, dove perde progressivamente la
ragione.
A livello tecnico, sono stati necessari
alcuni accorgimenti: i cinque racconti scritti fino a quel momento con
il metodo SIC avevano infatti avuto una media di 7-8 autori. Dopo aver
valutato e scartato molte ipotesi, come il ricorso a sottogruppi che
lavorassero con un wiki, abbiamo deciso di organizzare il lavoro
attraverso un sistema di prenotazioni: ogni scheda del Grande Romanzo
SIC ha avuto da 4 a 10 posti disponibili a seconda dell’importanza, con
gli scrittori invitati a prenotare, in ogni fase, un numero minimo e un
numero massimo di schede, in modo da avere una distribuzione ottimale
del carico di lavoro. Abbiamo quindi preparato un calendario delle
consegne per scaglionare il lavoro di composizione dei Direttori
Artistici. Ogni settimana rendevamo aperte alla prenotazione alcune
schede; nel frattempo ricevevamo dagli scrittori le individuali scritte
la settimana precedente e le passavamo ai DA per la composizione. Una
volta composte, le schede definitive venivano inviate in mail a tutti
gli scrittori e pubblicate sul sito, in un archivio sempre accessibile
agli autori. L’organizzazione del lavoro è stata rigorosa ma lineare:
abbiamo scelto di usare come strumento principe la e-mail, il più
“primordiale” degli strumenti web, sia per una questione di
accessibilità al progetto che per semplicità di archiviazione e gestione
dei materiali. Con questa catena di prenotazione, scrittura e
composizione, in media ogni settimana sono state prodotte 4 schede
definitive.
Perché un romanzo storico
Riprendendo in parte quanto scritto nel nostro saggio Affinità elettive,
quando, dopo due anni di sperimentazione, abbiamo deciso di portare
l’esperienza SIC verso il suo compimento, ovvero la scrittura di un
romanzo a duecento mani, la scelta di lavorare su un romanzo storico è
venuta naturale per una serie di ragioni:
1) Affinità
metodologico-strutturali tra romanzo storico e testi scritti col metodo
SIC. All’inizio dei lavori, fummo colpiti da un’analogia: dal momento
che lavorare a un romanzo storico significa anche lavorare con un
sistema di fonti, si poteva dire, estremizzando, che ogni romanzo
storico è già, per definizione, “scrittura collettiva”. Il metodo SIC,
d’altra parte, si fonda sulla creazione di sistemi di fonti
(letterarie), infatti porta tutti gli scrittori sullo stesso vettore
narrativo tramite un continuo rimando alle schede definitive. È creando
insieme i personaggi definitivi, e poi i luoghi, e poi le schede
trattamento, che gli scrittori si allineano tra loro e trovano la
necessaria visione condivisa. Questo lavoro non è del resto soltanto un workflow
“a scorrimento”: le schede rimangono, e durante il lavoro sulla stesura
gli scrittori sono tenuti a fare riferimento a quanto scritto nelle
schede personaggio, luogo e trattamento definitive. Le schede dunque
costituiscono il punto di riferimento principale degli scrittori. Di
più: il loro complesso definisce il campo d’azione del romanzo, in un
modo non dissimile da come la scelta di un determinato set di fonti
storiche definisce il campo d’azione di un romanzo storico.
2) La “resa” della scrittura collettiva nell’avventuroso e la resa dell’avventuroso nello storico. Durante il lavoro su Alba di piombo, il quarto racconto SIC, quasi una boutade nel suo affrontare gli anni di piombo con gli stilemi dell’action movie
hollywoodiano, avevamo notato come il lavoro collettivo, per il
principio quantitativo di cui sopra, capace di valorizzare l’idea
migliore, il particolare più gustoso, l’effetto più scenico, i
comprimari più caratterizzati, in una continua dialettica tra archetipo e
variazione sul tema, si prestasse particolarmente alle narrazioni
avventurose. Ci piace pensare che con la scrittura collettiva si avveri
in letteratura l’affermazione semiseria che Eco riservava a Casablanca,
ovvero che “quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si
raggiungono profondità omeriche” e “…proprio perché gli archetipi ci
sono tutti […] si può giocare sullo spettatore il fascino
dell’intertestualità”. Partendo quindi dall’idea di scrivere un romanzo
avventuroso, il passo successivo è stato quello di renderlo anche
storico. Il romanzo storico nasce del resto come romanzo avventuroso,
con l’Ivanhoe di Walter Scott, mentre tentare il “romanzo
avventuroso di ambientazione contemporanea” ci avrebbe portati
inevitabilmente a sforare in altri generi come il reportage o la
letteratura di viaggio, ipotesi inattuabili in termini di scrittura
collettiva, a meno che tutti gli autori non abbiano vissuto la medesima
esperienza.
3) Il
significato del romanzo storico per il lettore contemporaneo. È
sufficiente entrare in una libreria e dare un occhio alla sezione
dedicata per capire che il romanzo storico (e in particolare, oggi, l’historical thriller)
è un’area in cui si concentra una quantità notevole della cosiddetta
“narrativa popolare”, non poca della quale di impronta smaccatamente
commerciale, ma, senza stare a fare liste della spesa, sarà evidente al
lettore italiano che allo stesso tempo è un genere in cui si collocano
anche svariati ottimi libri. Fedeli alla nostra dichiarazione d’intenti,
uno dei punti della quale era “scrivere un buon romanzo, oggi”, abbiamo
rifiutato l’idea secondo la quale non esisterebbe un territorio tra
letteratura “alta” e “bassa” e anzi deciso di sfruttare la doppia natura
del genere per scrivere un libro che fosse godibile per il lettore
medio senza rinunciare a contenuti complessi.
Al di là
delle considerazioni di ordine pratico – non c’è bisogno di troppe
spiegazioni per capire che un romanzo introspettivo scritto
collettivamente sarebbe più rischioso di un romanzo storico – la scelta è
scaturita anche dalla convinzione che il genere abbia un potenziale in
parte inesplorato, un pubblico vasto e interessato e una capacità di
parlare al lettore di oggi anche superiore, sotto alcuni aspetti, a
quella del romanzo di ambientazione contemporanea. Scrivevamo nel marzo
2009, mentre il romanzo muoveva i primi passi: “Quando abbiamo deciso di
impegnarci nella scrittura di un romanzo collettivo così partecipato,
ci siamo chiesti quale fosse il tema, il genere, il tipo di romanzo che
meglio poteva giovarsi di duecento cervelli al lavoro. Abbiamo subito
pensato al romanzo storico: la mole di documentazione storiografica che
richiede, nonché la coralità della narrazione e la molteplicità dei
punti di vista che ben gli si addicono, trovano certo più facile
conseguimento in molti, piuttosto che individualmente. Inoltre, un
romanzo storico è tipicamente ponderoso e non necessita, anzi quasi
rifugge, arditezze stilistiche.”
4) La
necessità di un soggetto scritto dagli autori. Nel succitato, precedente
tentativo di romanzo SIC, un lavoro a “sole” 12 mani, poi accantonato
ma comunque utile per testare i limiti del metodo, avevamo riscontrato
la necessità di avere un soggetto chiaro da subito: il processo di
scrittura collettiva tendeva ad arenarsi o comunque a trovarsi in
difficoltà quando c’era da decidere in corso d’opera uno snodo
importante.
Questa necessità di un soggetto da
cui partire andava però a scontrarsi con la nostra volontà di rendere
collettiva l’intera filiera produttiva del romanzo. Lanciare un bando
per proposte di soggetto agli iscritti non avrebbe risolto il problema,
dal momento che ne avremmo comunque dovuta scegliere una, ma con la
scelta del romanzo storico si è aperta una terza opzione, quella del
bando per aneddoti. All’inizio non ci rendevamo conto che vi avremmo
trovato la soluzione del problema della “collettivizzazione” del
soggetto: l’idea di chiedere a tutti gli iscritti di inviare i propri
aneddoti storici era nata per trovare elementi originali da inserire nel
romanzo; visto però il periodo scelto, quello dell’occupazione tedesca
in Italia e della Resistenza, un momento della storia d’Italia riguardo
al quale parole come storia e memoria hanno una valenza particolarmente
profonda, nonché l’ultimo periodo in cui lo “straordinario”, sia in
senso positivo che negativo, ha attraversato la vita di tutti gli
italiani, siamo stati letteralmente sommersi di aneddoti, alcuni dei
quali di grande interesse, e abbiamo capito che sarebbe stato possibile
scrivere il soggetto interamente a partire da quelle storie.
Solo dopo aver raccolto gli aneddoti abbiamo recuperato la
documentazione ufficiale: in pratica abbiamo temporaneamente anteposto
le nostre fonti a quelle ufficiali; il lavoro dei DA, e la natura stessa
del metodo, che di volta in volta seleziona i contenuti migliori, ha
permesso di scremare con facilità quanto presentava problematiche di
ordine storico, lasciando però ogni scrittore libero di immaginare la
propria “visione della storia”.
5)
Letteratura resistenziale e romanzo di avventura. La scelta del periodo
ha dato infine origine a una importante motivazione “di seconda
generazione”: in Italia, la letteratura resistenziale – ossia una
letteratura che parlasse del periodo della resistenza armata al
nazifascismo – è stata a lungo al centro di un dibattito sulla
possibilità che venisse scritto un libro (un romanzo) che potesse
contemporaneamente descrivere la totalità di quel periodo storico, e
cogliere lo “spirito” dell’epoca. Il giudizio comune è che questo libro
non è mai stato scritto (con l’importante eccezione dell’opinione di
Calvino, che lo aveva individuato in Una questione privata di
Fenoglio), benché la letteratura resistenziale italiana sia un genere
che conta migliaia di titoli, e veda l’impegno di molti dei più
importanti autori italiani del secondo dopoguerra (Vittorini, gli stessi
Calvino e Fenoglio, Eco, ecc). Questo fatto è stato non di rado sentito
come un “fallimento” per la letteratura italiana, specie in un’epoca in
cui, fino ai primi anni Settanta, l’impegno letterario era vissuto dai
più come una declinazione della militanza culturale e politica
dell’intellettuale a favore della costruzione di una società più
“giusta”. In particolare, è stato vissuto come penosa contraddizione il
fatto che la Resistenza abbia potuto dare luogo alla sintesi democratica
della Costituzione Italiana, mentre a livello letterario, nonostante
siano state prodotte molte valide opere, non si è vista alcuna sintesi
paragonabile.
Oggi quel dibattito sembra molto
lontano. Il periodo postmoderno, dai più considerato chiuso, si frappone
come una cesura irrimediabile che rende impossibile considerare con
ingenuità o fiducia concetti come “verità storica” e “grande romanzo”.
In ambito italiano, un effetto indotto di questo è stata la relativa
“inavvicinabilità letteraria” del periodo della Resistenza, se non per
storie più individuali e intimiste. D’altro canto, l’ingresso della
narrativa popolare nell’ambito della letterarietà è osteggiato ormai
solo da pochi nostalgici, anche grazie agli strumenti di lettura della
cultura popolare (e pop) messi a punto in decenni di analisi e
destrutturazione. Ciò permette l’emersione di un fatto, a lungo
ignorato, che oggi appare di assoluta evidenza, ovvero che il periodo
dell’occupazione tedesca e della Resistenza è stato, ferma restando
tutta la sua tragica portata, un periodo di grandi avventure: dunque,
senza ambire a realizzare quella sintesi mancata anche dai grandi,
crediamo che sia possibile almeno fare buon uso del “potenziale
avventuroso” del periodo, e che la molteplicità dei punti di vista
intrinseca alla scrittura collettiva possa aiutare a inquadrare il
periodo con “gli occhi della memoria”.
I numeri di In territorio nemico
I
partecipanti al progetto sono circa 114, il che ci permette di affermare
con discreta certezza che In territorio nemico è il romanzo col maggior
numero di autori mai pubblicato. Diciamo “circa” perché allo stato
attuale non sono conteggiati alcuni revisori. Per ruoli, si dividono
così: 2 direttori di produzione, 8 direttori artistici, 71 scrittori, 26
revisori, 14 traduttori (per i dialoghi in dialetto), 42 “aneddotisti”
(cioè partecipanti che hanno inviato aneddoti per la costruzione del
soggetto). La somma non è 112 perché molti hanno avuto più ruoli. Non
hanno certo lavorato tutti a tempo pieno, perché i lavori sono stati
dilazionati al ritmo di un calendario in cui ognuno poteva scegliere
piuttosto liberamente la quantità e l’intensità del lavoro che intendeva
svolgere, ma siccome sono state prodotte quasi mille schede individuali
(i “mattoncini” di un’opera SIC), possiamo affermare non c’è stato
giorno, negli anni di lavorazione, in cui qualcuno, da qualche parte,
non abbia messo mano a In territorio nemico.
Considerando anche le schede aggiuntive che è stato necessario
far scrivere e comporre a integrazione dell’editing, siamo a circa 4000
pagine complessive di testo per 924 schede individuali (più 200 pagine
di aneddoti e documenti originali), 6 versioni del soggetto, 24 schede
personaggio definitive, 35 schede luogo definitive, 18 schede
trattamento definitive, 95 schede stesura definitive, 9 schedoni
revisione e 6 ritiri di revisione.
Sin dall’unificazione italiana – e forse anche prima – l’esistenza di un divario significativo e persistente tra le regioni meridionali e settentrionali del Paese ha animato un intenso dibattito. Questo non si è limitato alla politica nazionale, ma ha presto interessato studiosi delle più disparate scienze sociali, spesso e forse prevalentemente al di fuori dei confini nazionali. E immediatamente, alle differenze di natura più strettamente economica, si è finiti per collegare differenze di ben altra natura. Dal ruolo della ‘geografia’ e delle risorse naturali, sino allo studio del ruolo delle istituzioni nello sviluppo economico (ne avevamo in parte discusso qui), passando per i concetti di ‘cultura’ e ‘capitale sociale’, la maggior parte delle teorie sulle origini e la persistenza nel lungo periodo della ‘ricchezza delle nazioni’ hanno trovato nella cosiddetta ‘Questione Meridionale’ un valido ‘esperimento’ su cui testare la propria efficacia (quando non proprio la fonte di ispirazione). Tuttavia, nel discorso pubblico queste interpretazioni spesso coprono la descrizione fattuale dei divari e della loro evoluzione storica. Lo scopo di questo articolo è dunque proporre una rassegna dei principali risultati quantitativi prodotti dalla storiografia economica. Una ‘storia della storia’ della Questione meridionale – almeno nel suo lato ‘storico-quantitativo’ – pensata in primo luogo a divulgare i risultati più recenti a un pubblico non specialistico, così come a ragionare di come queste stime nascono e come le si possa interpretare. Pur non volendo essere esaustivi, dovendo selezionare tra un materiale vastissimo e in continua espansione, il lettore perdonerà la scarsa sintesi, finalizzata a rendere possibile un approfondimento individuale dei diversi dettagli.
Chiaramente, la quantificazione del divario può non essere l’aspetto più interessante di una simile Questione. Non tutto è quantificabile, e focalizzarsi su ciò che è misurabile porta al rischio inevitabile di sottovalutare aspetti cruciali ma più qualitativi, di natura sociale o culturale. In epoche storiche, inoltre, doversi aggrappare a stime più o meno approssimate comporta altri rischi. Eppure, nel caso della Questione Meridionale, l’esistenza di un divario economico, la sua ‘eccezionalità’, e la sua natura estremamente dualistica – Nord vs. Sud – sono stati la condizione necessaria per costruire spiegazioni dicotomiche. Perché tali narrazioni risultino logicamente fondate, è necessario che i divari economici tra Nord e Sud Italia risultino anormali in prospettiva storica e comparata, rispetto alle inevitabili disuguaglianze prodotte dallo sviluppo economico. Appena un decennio fa, nell’introdurre il suo libro sulla storia dello sviluppo economico italiano, Rolf Petri illustrava come avesse deciso di dare poco rilievo alle disuguaglianze regionali. Analizzando i differenziali del Pil pro capite tra le diverse regioni, difatti, l’Italia si trovava a livelli analoghi al Regno Unito (Paese di assai più lunga storia unitaria), e assai inferiore a paesi per certi versi assimilabili come Francia e Germania, ma anche del ben più piccolo Belgio. Allo stesso tempo, è importante capire se simili teorie debbano illustrare una ‘arretratezza’ assoluta, un Sud incapace di progredire, o piuttosto un ritardo relativo, rispetto a regioni tra le più avanzate al mondo. In una recente e preziosa disamina della storia ‘intellettuale’ della Questione, Salvatore Lupo ricorda come – pur restando “indietro” – il Sud non sia «rimasto sempre lì», e sia anzi progredito raggiungendo standard elevati di benessere, incompatibili con narrazioni che lo vorrebbero schiavo di culture premoderne e pauperistiche.
Fin dai primi decenni post unitari, dunque, gli economisti tentarono di fornire stime “eroiche” del divario economico tra regioni italiane. Nel 1891, Maffeo Pantaleoni – «il principe degli economisti italiani» – propose una stima della “Ricchezza” delle diverse regioni d’Italia. Se il termine in italiano può risultare ambiguo, nel gergo economico con ricchezza si intende cosa ben distinta da reddito. Il reddito è una variabile di flusso – le entrate che un individuo, o un paese, registrano in un dato periodo. Al contrario, la ricchezza costituisce l’ammontare delle risorse possedute in un dato momento. Se un salario (mensile, annuale) costituisce parte dei vostri redditi, una casa di proprietà fa parte del vostro ‘stock’ di ricchezza. Adam Smith nel 1776, così come Corrado Gini, ancora nel 1914, parlavano della ricchezza delle nazioni perché nelle economie pre-moderne, dove il reddito tende ad essere stagnante, il benessere (o il potere) sono inevitabilmente legati alla ricchezza. Recentemente, l’economista francese Thomas Piketty, spaventato dal ‘ritorno’ di un simile ‘capitalismo patrimoniale’, ha riportato in auge questa idea – anche e forse soprattutto facendo riferimento ai romanzi francesi e inglesi di fine diciannovesimo secolo, dove le eredità e i patrimoni giocano un ruolo così importante (Marco Baliani ne trasse un efficace reading per il Festival dell’Economia di Trento). Motivato dagli “interessi” e dalla “concorrenza” regionali, dunque, Pantaleoni – dopo aver faticosamente ricostruito la ricchezza nazionale per il periodo 1872-1889 (1890) – provò a verificarne la distribuzione tra le zone della “Alt’Italia”, dell’“Italia media” e “Italia bassa”. Una ricchezza nazionale molto inferiore alle attese – la ricchezza francese era valutata in oltre 200 miliardi – veniva dal Pantaleoni suddivisa, in modo quasi egualmente tra le provincie del Nord (Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto) e tutto il resto del Paese.
Fonte: Maffeo Pantaleoni, “Delle regioni d’Italia in ordine alla loro ricchezza ed al loro carico tributario“, Giornale degli Economisti (Gennaio 1891)
Tali stime, come dicevamo, erano assai eroiche: un metodo molto ingegnoso, messo a punto dal francese De Foville, prevedeva di moltiplicare l’ammontare delle eredità trasmesse in un dato anno (ottenuti dalle statistiche fiscali) per alcuni coefficienti come la distanza media tra le generazioni (stimato su dati demografici) e i tassi di evasione fiscale, ovviamente non osservati. Il metodo, per gli interessati, viene ricostruito in dettaglio da un interessante lavoro di Alberto Baffigi; qui può essere sufficiente ricordare che Francesco Saverio Nitti, nell’ambito di una delle prime fasi di acceso dibattito sulle ragioni dell’arretratezza meridionale, userà la stessa metodologia per sostenere la sproporzione nella pressione fiscale tra Nord e Sud. All’epoca, secondo il Nitti, erano però le regioni del Sud a pagare di più, in proporzione alle loro più esigue risorse economiche: le sue stime per il 1901-1903 raffiguravano Lombardia, Piemonte e Liguria già come un mondo a parte, più ricche rispettivamente del 25, 50 e oltre 75% della media nazionale. Il materiale su cui si basavano rendeva tuttavia molto precarie conclusioni così disaggregate. A mo’ di esempio, il trevigiano Gini riteneva che i suoi conterranei veneti (forse per effetto della lunga dominazione straniera) fossero assai più propensi ad evadere queste tasse. Assumendo tassi di evasione uguali da Nord a Sud, Nitti avrebbe sottovalutato la ricchezza del Veneto – che nelle sue stime risulta povero quanto la Basilicata. Soprattutto, una fonte come le eredità finiva per tenere sempre meno conto delle più moderne forme di accumulazione della ricchezza (titoli azionari, conti correnti, e simili), più facilmente occultabili rispetto alle tradizionali proprietà immobiliari e terriere. Con il procedere del tempo e l’avanzare dello sviluppo economico, i termini della ‘Questione’ andranno sempre più spostandosi dai differenziali di ricchezza a quelli di reddito, divenuto l’unità di misura preferita dagli economisti per misurare il livello di sviluppo economico.
Così, mentre dal secondo dopoguerra l’Istat ha cominciato a produrre stime del Pil, prima nazionale e poi regionale, gli storici economici hanno provato a ‘tirare indietro’ queste serie, producendo stime comparabili per il primo secolo post-unitario. Come sempre, è bene ricordare che le stime dei divari si basano su ricostruzioni necessariamente ipotetiche. Sviluppato in seguito alla Grande Depressione, il Pil è legato inevitabilmente al contesto di economie industrializzate (Stati Uniti e Regno Unito), ed era finalizzato a misurare in breve tempo la variazione del reddito e dell’occupazione. Adoperare il Pil per economie pre-industriali, o in via di industrializzazione, richiede dunque un numero non indifferente di assunzioni e compromessi che è necessario mettere in conto, e di cui il lettore, specialista o meno, può legittimamente dubitare – il lettore interessato trarrà grande beneficio dal recente lavoro di Baffigi sulle serie nazionali del Pil.
Il primo tentativo ‘moderno’ di quantificare queste differenze è, probabilmente, un articolo dell’economista dell’MIT Richard S. Eckaus. Esperto di sviluppo economico, in particolare nelle economie arretrate, in un articolo pubblicato nel 1960 su Moneta e Credito, tradotto l’anno seguente su uno dei ‘top journals’ internazionali di storia economica, Eckaus guardava all’Italia come ad una «opportunità di controllare, per quanto permettono i dati, alcune teorie moderne sullo sviluppo economico e sugli effetti dell’integrazione economica». In modo molto moderno, l’articolo cercava nella storia economica ‘dati’ per testare moderne teorie economiche: tuttavia, doveva riscontrare l’impossibilità di ottenere stime dei «dati fondamentali che bisognerebbe conoscere», e cioè «il reddito totale prodotto in ciascuna regione, la sua distribuzione, la sua composizione settoriale ed il suo rapporto con lo stock disponibile di capitale». Per questo motivo, con ragguardevole attenzione a evitare di perdere il dettaglio delle grandi differenze all’interno di Nord e Sud, procedeva a raccogliere quanti più «indicatori indiretti» possibile, pur considerando che «questi ultimi non sono sempre guide sicure». Mettendo insieme dunque le statistiche disponibili sui censimenti delle forze di lavoro, «capitali fissi sociali» (prevalentemente chilometraggio ferroviario e stradale, ma anche «il sistema scolastico», nella forma di dati sull’alfabetismo), produzione agricola, attività industriale, Eckaus era spinto a certificare la «chiara superiorità del Nord rispetto al Sud, al tempo della unificazione, in termini di produzione e redditi pro-capite». Certo, un simile giudizio dipendeva «necessariamente, in certa misura, da giudizio individuale»: ma se «la sola eccezione» a questo quadro derivava da una maggior quota di addetti industriali al Sud, «un calcolo del reddito pro-capite in agricoltura assegnerebbe al Nord almeno un vantaggio del 20% rispetto al Sud». E mentre i censimenti della popolazione industriale costituiscono una fonte assai problematica, per via della definizione assai labile di ‘industria’, in un contesto largamente arretrato come l’Italia di metà 19° secolo, gli altri indicatori mostravano maggiori «capacità di ulteriore sviluppo» nel Nord Italia. Il citato capitale fisso sociale, così come dalla qualità delle produzioni agricole e industriali, facevano pensare a Eckaus che «il trapasso da antichi a moderni modi di vita era già bene avviato al Nord mentre era ai primissimi inizi nel Sud».
Uno sguardo ‘esterno’ non è sempre garanzia di ‘imparzialità’. Proprio in ambito anglosassone, studi più recenti hanno sottolineato l’esistenza di un approccio ‘orientalista’ al Sud (italiano quanto globale). Eppure, è assai sorprendente come diversi elementi – l’attenzione alle diverse ‘questioni’ dentro il Nord e il Sud; l’importanza di elementi sia quantitativi che qualitativi dello sviluppo economico; la stessa attenzione ai ‘potenziali’ di sviluppo futuro – verranno largamente confermati dagli studi dei successivi decenni. Dai tempi di Eckaus, difatti, l’evidenza disponibile è sensibilmente aumentata. Lo sforzo di diverse generazioni di storici economici ha lasciato in eredità al Paese diverse stime dei livelli di reddito sperimentati dalle diverse regioni a partire dal 1871. Prima di questa data, in cui sia il processo di unificazione che la stessa formazione dello Stato unitario e della sua statistica ufficiale raggiungono uno stadio più avanzato, sembra ancora assai difficile trovare cifre rispondenti ai criteri condivisi dalla comunità scientifica internazionale. In larga parte costruita sulla base del lavoro di Stefano Fenoaltea, e riassunta recentemente da Emanuele Felice in un libro di taglio volutamente divulgativo, questa evidenza sembra piuttosto concorde nell’indicare un gap di qualcosa meno del 20% nel reddito pro-capite tra il triangolo industriale del Nord-Ovest (Piemonte, Liguria e Lombardia) e il ‘Sud’ – definito come il preesistente Regno delle Due Sicilie più la Sardegna. Rispetto alle prime stime disponibili per la ricchezza, è interessante notare come regioni come Lombardia e Campania risaltino maggiormente rispetto a Piemonte e Sicilia; rimane invece, tutto sommato a sorpresa, un valore molto alto per il Lazio. Allo stesso tempo, come anticipato, i divari individuati da Felice ‘confermano’ in modo rassicurante l’unica cifra che Eckaus azzardava oltre cinquant’anni prima.
Fonte: Emanuele Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, appendice statistica
Evidenza non vuol dire, chiaramente, ‘verità’, ed è parte della ricerca storiografica che esistano versioni alternative. In particolare, rielaborando in modo differente le stesse serie prodotte da Fenoaltea, Federico, e lo stesso Felice, ma aggregandole con diverse metodologie, Vittorio Daniele e Paolo Malanima ottengono risultati (per il 1891) più contenuti (un divario di circa il 10%). Senza compiere nuove stime, ma «in maniera deduttiva», i due autori ipotizzino che il divario al 1861 non dovesse essere maggiore di così. Questa stima, diventata il fondamento storico-economico di ricostruzioni più generali(ste) come quelle di Pino Aprile, che tanta fortuna di pubblico hanno riscontrato, costituivano il bersaglio polemico del libro di Felice. Non sorprende dunque come la Rivista di Storia Economica abbia ospitato un lungo ‘commento’ di Daniele e Malanima, seguito da un ancor più lungo ‘contro commento’ di Felice – e come la stessa dialettica, piuttosto accesa, abbia avuto ampio risalto su numerosi siti e pagine Facebook.
Alla base delle critiche di Daniele e Malanima vi sono, in primo luogo, diverse ‘tecnicalità’ nelle procedure di stima. Avendo fornito i link ad uso del lettore interessato, proviamo a riassumere qui quella che ci semrba più pertinente questo articolo. In primo luogo, Daniele e Malanima sembrano non condividere la metodologia sottostante le stime di Felice per il 1871. In sostanza, in presenza di una stima nazionale consolidata, Felice la ‘divide’ tra le regioni ricorrendo a una metodologia piuttosto diffusa in ambito internazionale. In assenza di stime dirette della produttività dei diversi settori, si ricorre come alternativa alle stime disponibili sui salari nelle diverse regioni italiane. Questo richiede diverse assunzioni – in primo luogo, che i salari riflettano la produttività. Tuttavia, è utile evidenziare come questo – pur in presenza di fonti necessariamente più incerte – sia lo stesso metodo con cui Felice ha ottenuto le stime per il periodo 1891-1951, pubblicate sulla Economic History Review e usate da Daniele e Malanima. Nell’articolo originale, Felice sottolinea come queste siano «not entirely satisfactory», ma semplicemente il massimo ottenibile con le fonti disponibili, comparabili con quanto si ottiene per altri Paesi europei. Se l’evidenza per il 1871 non può essere considerata definitiva (il lettore interessato può approfondirla qui), risulta difficilmente preferibile un ragionamento meramente “deduttivo”. Altri elementi di discordia risiedono nella scelta di ricostruire stime a confini dell’epoca (Felice), cioè le regioni come definite dalle fonti ufficiali d’età liberale, o piuttosto a confini di oggi, come fanno Daniele e Malanima, e nelle tecniche adoperate da questi due autori per interpolare i loro dati. Entrambi questi punti nascondono insidie e possono motivare stime assai differenti: tuttavia, quella che sembra essere la maggiore differenza sta nel tipo di interpretazione che a questo divario si vuol dare.
Pur riconoscendo la rilevanza di fattori di contesto come la ‘geografia’ – la povertà di risorse del Mezzogiorno, su cui si soffermava già la prima generazione di meridionalisti, e la posizione strategica del Nord rispetto alle regioni chiave dell’industrializzazione europea -, Felice insiste su spiegazioni di tipo ‘socio-istituzionale’ (di cui ci aveva già parlato nella sua intervista). Alla luce delle moderne teorie istituzionaliste portate alla ribalta dai lavori di Acemoglu e Robinson, l’accusa di Felice alle classi dirigenti del Sud risulta per molti versi una versione aggiornata dell’interpretazione di Luciano Cafagna, che parlò per il Sud di una ‘modernizzazione passiva’. Proprio la mancanza di classi dirigenti che incarnassero una cultura di modernizzazione ha impedito al Sud una modernizzazione ‘attiva’, come quella sperimentata dal Settentrione. Quella che Daniele e Malanima chiamano “storia in negativo” – «ciò che non è avvenuto [dando], dunque, giudizi soltanto in negativo, come conseguenza di un confronto fra aspetti o momenti del passato con uno schema ideale di sviluppo, con un modello teorico, assunto come un dover essere» – è secondo Felice la concezione della disciplina storica come studio «non (…) solo [di] quello che è successo», ma di «quello che è successo nel contesto di quello che sarebbe potuto succedere». Interrogarsi su controfattuali plausibili – perché, in determinati momenti cruciali, il Sud abbia spesso ‘mancato l’appuntamento’ – costituisce, secondo Felice, non polemica politica o ideologia, ma strumento necessario a illuminare il presente.
In questo senso, ci sembra interessante approfondire una delle ‘novità’ dell’argomentazione di Felice, che Daniele e Malanima rilevano (in modo piuttosto critico), e cioè il ruolo delle disuguaglianze. L’idea non è, ancora una volta così aliena a quel lungo filone che ha voluto vedere nella Questione meridionale una questione sociale – o più specificamente demaniale. Tuttavia, la maggiore attenzione prestata negli ultimi trent’anni dagli economisti alle disuguaglianze personali consente a Felice di dettagliare questo elemento di ‘arretratezza’ del Meridione. Eppure, osservano Daniele e Malanima, le pionieristiche stime di Vecchi sulla disuguaglianza dei redditi mostrano un Sud meno ineguale del Nord al momento dell’Unità. Mettendo insieme quel (poco) che sappiamo della situazione del Sud all’Unità, è possibile apprezzare la pertinenza dell’osservazione di Felice. Lo stesso volume di Vecchi stima elevati tassi di povertà al Sud: in un’economia povera, la disuguaglianza di reddito (misurata dall’indice di Gini) risulta necessariamente bassa – non c’è reddito a sufficienza perché i ricchi siano molto più ricchi degli altri! Allo stesso tempo, in simili società, la ricchezza risulta fondamentale, tanto per sopravvivere a periodi di magra, quanto per iniziare attività imprenditoriali. E quel poco che sappiamo della ricchezza ci racconta la sua estrema concentrazione in pochissime mani – probabilmente accentuata dalle vendite di terre demaniali o in mano alla Chiesa avvenute dopo l’Unità. Senza una classe media in grado di produrre innovazione e attività imprenditoriale, né una forte domanda (data l’estrema povertà della maggioranza della popolazione), e con la ricchezza rimaneva in mano di ricchi e disinteressati baroni, il Sud sembrava un ambiente assai sfavorevole allo sviluppo economico. La ricchezza, anche dove era abbondante, rimaneva accumulata in forme classiche (terre e immobili), e non veniva investita – non diventando capitale. Come detto, l’evidenza in questo campo è frammentaria e spesso aneddotica, ma sembra fortunatamente destinata ad aumentare, grazie a progetti su vasta scala condotti sugli archivi catastali degli stati preunitari.
In ogni caso, la posizione che ci sentiamo di considerare prevalente tra gli storici economici è quella di considerare il reddito al 1871 una spia di ben più ampi divari nelle capacità di ulteriore sviluppo. Con l’unificazione, l’Italia prova ad integrarsi maggiormente nella crescente economia europea dell’epoca, e le regioni settentrionali sapranno trarre maggiori benefici dalla fase finale della cosiddetta ‘prima globalizzazione’, che si interromperà con la Grande Guerra. Questa interpretazione è supportata dalle differenze rilevate in una serie ben più ampia di indicatori. Come riassunto da Felice nel suo libro, più o meno tutti quelli che si è soliti denominare ‘indicatori sociali’ – istruzione, soprattutto in termini di alfabetizzazione; tassi di povertà e di malnutrizione; stature – interpretate più nelle variazioni, che tendono a rispecchiare variazioni nelle condizioni di vita soprattutto in età infantile, che nei livelli, ovviamente dipendenti da una componente genetica -; salute; … – confermano l’impressione data dal reddito. E anche includendo diverse delle variabili considerate ‘fonti di crescita’ – lo sviluppo finanziario, i già citati trasporti, quella stessa ‘geografia’ già citata, soprattutto in termini di fonti d’acqua e vicinanza con i mercati settentrionali – sembravano essere con ogni probabilità più abbondanti al Nord.
Pur non indicando nessuna spaccatura colossale, né alcun destino di sottosviluppo per il Meridione, queste stime sembrano certificare l’esistenza di un ‘vantaggio’ del Nord, preesistente il momento dell’unificazione. Il rigoroso lavoro di Fenoaltea indicato in precedenza esclude che le politiche economiche unitarie abbiano intenzionalmente avvantaggiato il Nord rispetto alle altre regioni. Un argomento tradizionale di chi individua nell’unificazione l’origine dei mali del Sud sono i presunti effetti della improvvisa abolizione delle tariffe esistenti al 1861 tra i diversi stati italiani, che avrebbe esposto alla concorrenza le nascenti industrie meridionali e soprattutto napoletane. Chi si è occupato di misurare la effettiva integrazione dei mercati italiani ha tuttavia rilevato come la convergenza dei prezzi, già in atto prima dell’Unità, sia stata invece momentaneamente arrestata dall’annessione del meridione. La stessa unificazione monetaria sarebbe divenuta effettiva solo diversi decenni dopo quella legale: quella integrazione necessaria perché l’abolizione delle barriere producesse un effettivo danno ai produttori meridionali, dunque, non sembra esserci stata almeno fino alla fine del secolo, quando i divari erano già consolidati. Certo, qualche effetto l’aumentata pressione fiscale deve averlo avuto: è cosa nota come, all’unità, l’ex Regno di Sardegna detenesse un debito pubblico per abitante assai maggiore del resto d’Italia. Tuttavia, ciò che nella vulgata neoborbonica non si coglie è che quel debito era frutto, oltre che di spese militari, di quegli investimenti in infrastrutture che Borboni e Papi avevano preferito non fare, in virtù di una politica sintetizzata dal lavoro classico di Gianni Toniolo come volta a garantire zero tasse in cambio di zero investimenti – non esattamente garanzia di sviluppo economico. Recentemente, un articolo di Pierluigi Ciocca sulla Rivista di Storia Economica ha avuto il merito di sottolineare come ancora manchi una stima dell’impatto che, proprio in quel primo decennio unitario, ebbero il fenomeno del brigantaggio e della sua repressione, soprattutto sull’agricoltura. In ogni caso, allo stato attuale la ricerca storiografica sembra verosimile escludere che il divario sia stato creato, o enormemente amplificato, dall’unificazione stessa.
Ciò che sia Fenoaltea che Felice confermano è invece la grande eterogeneità su cui già Eckaus richiamava l’attenzione. All’interno del Sud, in particolare, esistevano differenze ampie quasi quanto quelle nazionali, con la Campania che si attestava su livelli superiori a quelli del Piemonte. Focalizzandosi sull’attività più propriamente industriale, ciò che Fenoaltea conclude è che l’Italia – con l’unica eccezione della Lombardia – era ancora una “traditional ancient regime economy”, nella quale le attività manifatturiere tendevano ad essere naturalmente concentrate nei pressi delle Corti. Tuttavia, più interessante sembra essere guardare alla vicenda con uno sguardo più ampio. Come sottolineato in un recente contributo di Iuzzolino, Pellegrini e Viesti, una volta messe a confronto con gli standard delle nazioni europee dell’epoca, tutte le regioni d’Italia, da Nord a Sud, non possono che essere «uniformemente più povere, tutte sostanzialmente economie agricole, ma con differenti gradi di arretratezza». E anche allora, la disuguaglianza regionale del neonato Regno sarebbe stata inferiore non solo al ben più vasto ed eterogeneo Impero Asburgico, ma di uno stato nazionale tra quelli di più antica formazione come la Spagna.
Fonte: Emanuele Felice e Giovanni Vecchi, “Italy’s Growth and Decline, 1861-2011“, The Journal of Interdisciplinary History (Spring 2015)
I divari riassunti in precedenza sembrano più che sufficienti a spiegare la divergenza registrata fino alla prima guerra mondiale. La crescita del triangolo industriale viene ulteriormente accentuata dalle tendenze monopolistiche stimolate dallo sforzo bellico e, in un secondo momento, dalle necessità dell’economia autarchica: è proprio nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale, difatti, che i divari regionali italiani esplodono oltre ogni livello di guardia. Nella serie di Felice e Vecchi, riportata in figura, si può osservare come il primo dato per l’immediato secondo dopoguerra – il 1951 – mostri un divario apparentemente incolmabile tra il nord-ovest e le aree meridionali ed insulare del paese (mentre il Centro Italia ‘galleggia’ sempre su valori in linea con la media nazionale e il Nord-Est sembra aver iniziato la sua marcia di riavvicinamento). Tuttavia, con la fine della guerra finisce anche l’attitudine passiva dei governi nazionali. L’Italia democratica fa del miglioramento delle condizioni di vita nel Meridione una questione…d’onore, e dà avvio alle prime serie politiche di sviluppo regionale. Proprio negli anni ‘miracolosi’ dei decenni ‘50 e ‘60 – in cui l’Italia tutta marcia a ritmi largamente unici nella storia economica d’occidente – il Sud ricuce molta della distanza persa negli anni di crisi e stagnazione. La convergenza registrata in quegli anni è impressionante, tenuto conto che avviene nei confronti di un Nord Ovest tornato con ogni diritto nel novero delle regioni economicamente più dinamiche del mondo. Per molti versi, dunque, il Miracolo Italiano è composto di un ancor più sconvolgente Miracolo Meridionale. Con gli anni ’70, la fine del sistema economico mondiale definito dagli accordi di Bretton Woods, le crisi petrolifere degli anni 1973-1974 (cui aveva accennato Niccolò Serri qui) e l’avvio di una fase altamente incerta dei mercati internazionali fermano la corsa non solo del Sud, ma anche delle regioni settentrionali. Pur continuando a crescere al di sopra della media dei Paesi occidentali, l’Italia sembra essere entrata nella sua fase di declino relativo, almeno secondo il recente volume di Felice. Almeno fino a parte degli anni ‘80, sarà la ‘terza Italia’ dei distretti e delle piccole imprese a dare agli italiani l’illusione di avere in casa una nuova ‘variante del capitalismo’, in grado di trascinarli oltre la risacca. Ma nonostante la fascinazione straniera – in questa fase le principali organizzazioni internazionali ‘vedono’ nelle loro previsioni il sorpasso dell’Italia ai danni della affannata Germania e della Francia, mentre un giovane Bill Clinton, governatore dell’Arkansas, si reca in visita nelle provincie di Modena e Reggio Emilia, per apprenderne i segreti – sarà un fuoco di paglia. Il 1992 inizia con i primi arresti – a Milano, non certo nel ‘Sud criminale’ – che daranno il via a Mani Pulite, e si chiude con una crisi valutaria, che inaugura una lunga fase di stagnazione economica. Proprio di recente, Carlo Clericetti su Repubblica ha provato a riportare l’attenzione su i primi, cruciali anni cruciali ’90, e sul loro ruolo nel declino del Paese. Declino che si materializza appieno nel decennio 2000-2010, quando, sempre secondo Felice e Vecchi, il tasso di crescita italiano è «il peggiore del mondo» (escludendo i Paesi colpiti da calamità naturali o guerre). E se da allora il Meridione d’Italia è cresciuto – come denunciato recentemente dallo Svimez – la metà della disastrata Grecia, ancora nel 2013 Iuzzolino, Pellegrini e Viesti potevano notare come il divario tra le regioni meridionali e il resto del Paese fosse rimasto a livelli sostanzialmente invariati da quelli raggiunti nel 1970, al termine della breve ma intensa fase di catching up. Purtroppo, da allora, tutto lascia credere che la lunga coda della più aspra crisi della storia unitaria abbia infine avuto effetti anche riguardo ai differenziali regionali.
Alla luce di questo tentativo di sintesi, la ‘Questione’ può essere meglio inquadrata. Al tempo dell’unificazione, il divario tra le regioni meridionali e settentrionali – considerate come due blocchi, ed omettendo dunque grosse variabilità regionali – era rilevante ma non irrecuperabile. I diversi vantaggi riscontrati dal Nord potrebbero spiegare l’aumento delle disuguaglianze anche in assenza di specifiche politiche ‘coloniali’ ed estrattive da parte dei ‘Piemontesi’; i divari esplodono anche grazie all’intervento statale in occasione delle due guerre mondiali, ma – come nel 1870 – guardare alle macro-regioni oscura molta della variazione regionale (e talvolta anche intra-regionale); in seguito, con il pieno sviluppo del Miracolo e l’avvio delle prime concrete politiche regionali fa seguito l’andamento a “U rovesciata” che ci si aspetta in simili casi. Come illustrato ad esempio nella classica proposizione di Williamson, è dinamica piuttosto comune e teoricamente comprensibile che, nel processo di crescita e convergenza di aree relativamente arretrate – come abbiamo visto essere l’Italia all’inizio della storia unitaria –l’avvio dell’industrializzazione avvenga in maniera diseguale, concentrandosi in una area per poi diffondersi solo in un secondo momento al resto del Paese. Il sovrapporsi di tempistiche diverse genera, per l’appunto, un aumento seguito da una riduzione dei divari. L’idea dietro un simile schema è per molti versi analoga a quella teoria delle disuguaglianze personali nota come ‘curva di Kuznets’, secondo cui anche le differenze tra i cittadini di una data economia aumentano nella fase di industrializzazione per essere ricucite a stadi più avanzati di sviluppo. Non si vuole così negare che l’intervento – e il non intervento – prima degli anni ’50 abbiano avuto un impatto su questi andamenti. Queste ‘curve’ son, del resto, formalizzazione di relazioni prevalentemente empiriche, osservate nel passato, e non ‘leggi’ ineluttabili: lo stesso percorso della disuguaglianza nel nostro Paese, ritratto da Vecchi nel volume citato in precedenza, sembra smentire l’ipotesi di Kuznets; mentre l’emergere di una nuova ondata di disuguaglianza nei Paesi industrializzati ha spinto economisti come Branko Milanovic ad aggiornare le predizioni di Kuznets, proponendo una teoria di ‘cicli’ di disuguaglianza. Ciò che interessa affermare è che, di per sé, l’esistenza e l’andamento di questi divari non richiederebbero spiegazioni particolari, risultando in linea con molta della teoria e gran parte dell’evidenza storica comparabile. L’analisi, magari arida, degli indicatori economici non sembrerebbe giustificare l’esistenza di una ‘Questione’, o perlomeno non della rilevanza di quella Meridionale.
Ci sono, certo, alcune cose che è bene considerare. Intanto, nei quasi cento anni precedenti la fase di convergenza, l’andamento economico del Meridione d’Italia (sempre considerato nel suo complesso) è probabilmente da considerarsi piuttosto modesto in termini assoluti. Negli anni 1871-1951, il tasso annuale di crescita del Sud sarebbe, secondo le stime attuali, appena lo 0.5% – metà e un terzo di Centro e Nord-Ovest rispettivamente. Questo, in un’epoca di lenta ma non irrilevante crescita per l’Italia, e soprattutto di investimenti maggiori in infrastrutture, istruzione e beni pubblici (in raffronto a quanto avvenisse ai tempi dei Borbone), può essere considerato un fallimento, anche se forse è un giudizio che tiene conto più dell’esperienza storica successiva che delle reali possibilità. In secondo luogo, in un lavoro citato in precedenza, A’Hearn e Venables sottolineano come lungo le diverse fasi della storia d’Italia, tutte e tre le determinanti classiche della collocazione geografica delle attività economiche – vantaggi naturali, accesso al mercato domestico e a quelli internazionali – abbiano spinto in favore delle stesse regioni. Questa è in effetti una peculiarità tutta italiana, e fa sì che disuguaglianze di entità non anomala nei raffronti internazionali, costituiscano tuttavia ‘un caso’, in quanto registrate sempre tra gli stessi ‘primi’ e ‘ultimi’. Se in altri Paesi europei, nell’arco un secolo e mezzo, l’evolversi delle fasi politiche e dello sviluppo economico ha visto aree un tempo ‘leader’ lasciare il passo, in Italia il Nord-Ovest ha sempre guidato, e il Sud ha sempre inseguito. Come sottolineato dagli stessi Daniele e Malanima nel loro ‘commento’,
Mentre un secolo e mezzo fa
l’ineguaglianza era “dispersa” sia nel Nord che nel Sud, in
seguito si è concentrata nelle due sezioni del paese. In altre
parole c’è stata convergenza tra le regioni che compongono il Nord e
quelle che compongono il Sud, ma c’è stata divergenza fra Nord e Sud.
La dinamica di questi centocinquant’anni,
dunque, aiuta a rendersi conto che dentro la Questione ci sono tante
domande e fenomeni differenti – l’ascesa e il declino dell’Italia tutta;
l’andare e venire dell’intervento pubblico (oltre alla sua diversa
‘qualità’ nelle diverse fasi storiche); le diverse storie regionali, da
Nord a Sud. In questo senso, se la storia economica è di qualche
utilità, questa sembra risiedere nel rifiutare narrazioni forzatamente
dualistiche e semplificatorie.
Giacomo Gabbuti, romano, vive a Oxford, dove studia Economic and Social History, cercando di far dimenticare un passato a economia. Collabora al progetto HHB, e si occupa di benessere e disuguaglianze in prospettiva storica, con occhio soprattutto all’Italia Fascista. È redattore di 404: file not found, per cui coordina il focus TraDueMondi sulla storia economica italiana.
Pubblicato da quattrocentoquattro il 21 marzo 201312 maggio 2016
A partire da oggi potrete scaricare gratuitamente da questa pagina #costruirestorie. Nuovi linguaggi e nuove pratiche di narrazione: il primo ebook interamente ideato, curato e pubblicato dalla redazione di 404: file not found.
Come avrete la possibilità di leggere, si tratta dell’ultimo sviluppo del ciclo di incontri Costruire storie che si è svolto lo scorso anno all’Università di Siena. Si tratta di un testo ibrido che intende da un lato riproporre alcuni degli interventi pronunciati in quelle giornate, dall’altro rilanciare, con riflessioni nuove, il dibattito avviato anche in rete. Nel blog potete ritrovare attraverso il tag “#costruirestorie” i focus realizzati in occasione delle quattro giornate di incontri e qui gli audio di quest’ultime.
La realizzazione dell’ebook è stata volutamente pensata per i soli formati .epub e .mobi. Questo perché, come ha scritto Flavio Pintarelli in occasione della pubblicazione dell‘ebook de il lavoro culturale, “volevamo confrontarci col panorama dell’editoria digitale in modo diretto. Il pdf è tradizionalmente un formato di stampa e a noi interessava invece un altro ambito di lavoro”. D’altronde, per quanto riguarda l’accessibilità ai due formati, chi non possiede ereader o tablet, può scaricare gratuitamente programmi di lettura ebook per pc (Calibre) o i plug-in per i browser più diffusi (Mozilla, Chrome, Safari). Per i possessori di ereader o tablet, invece, la scelta fra i due formati dipenderà dal tipo di file supportato dal vostro lettore.
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Altrimenti potete scaricare l’ebook direttamente da qui in formato .mobi e da qui quello in formato .epub
Bologna. Il Natale è nell’aria: via Indipendenza, il lungo viale che porta a Piazza Maggiore, è illuminato dagli addobbi natalizi; i negozi espongono in vetrina i primi saldi, una fiumana di gente riempie le strade del centro. Tutto sembra fluire come sempre, nel freddo Natale bolognese.
In un bar a ridosso della stazione incontro Maurizio Maurizzi, segretario regionale della Fillea CGIL, il sindacalista che ha seguito la vicenda della Coop Costruzioni fino al triste epilogo delle scorse settimane. Ci sediamo, e davanti ad un caffè proviamo a ripercorrere questo anno di inferno, in cui il colosso cooperativo ha dovuto dichiarare fallimento. Sì, perché – come afferma Maurizzi – “la liquidazione coatta amministrativa è identica al fallimento”. La Coop costruzioni non esisterà più, è questo il primo e duro verdetto della trattativa che si è protratta per un anno circa. Mesi passati a rincorrere una soluzione che salvasse l’azienda, che mettesse a riparo la produzione, che desse un orizzonte stabile ai 360 lavoratori della più grande cooperativa del Bolognese. Nel mese di marzo i primi accordi sindacali, i primi periodi di cassa integrazione, con la speranza di trovare una soluzione per garantire la capacità produttiva della cooperativa. Niente da fare. Adesso le decisioni spettano al Commissario, incaricato dal Ministero per valutare se esistono le condizioni per garantire 12 mesi di ammortizzatori sociali ai lavoratori, rimasti senza lavoro. Il dramma sociale è enorme. Adesso, bisogna fare in fretta per assicurare un anno di Cassa Integrazione; serve un atto del Ministero del Lavoro che autorizzi il ricorso alla Cig.
Le ragioni del fallimento sono tante: dalla fragilità del settore delle costruzioni, che ha visto nei sette anni di crisi perdere più del 37,8 % degli occupati, alle scelte discutibili dei principali attori del mondo cooperativo e delle istituzioni locali. “È stato un errore – afferma Maurizzi – pensare che l’edilizia potesse sopravvivere alla crisi del mercato immobiliare continuando a investire sul mattone e sul consumo del suolo. Sono mancati processi di riorganizzazione aziendale, è mancata la capacità di investire su piani di riconversione della produzione, scommettendo sulla bio-edilizia, sulle strategie di efficientamento energetico, su investimenti per la manutenzione del territorio”.
È mancato il ruolo strategico degli attori pubblici e privati nel disegnare strategie di sviluppo sostenibile: “Io non credo che la Lega Coop bolognese possa essere accusata di aver voluto la crisi dell’azienda: semplicemente è venuto meno il ruolo di direzione che ci si aspetta in momenti di grave difficoltà del tessuto produttivo locale”.
Eppure, dentro la crisi della Coop Costruzioni emerge una frattura più ampia, che riguarda il rapporto tra modello cooperativo e sistema capitalistico – e più in particolare, alla graduale subalternità del mondo della cooperazione alle regole di sviluppo del mercato privato. La peculiarità della cooperazione come forma di organizzazione economica alternativa a quella di mercato sembra scomparire del tutto, assorbita dagli automatismi dell’accumulazione capitalistica. “Non è tanto un problema di governance interna all’impresa cooperativa – afferma Maurizzi – perché anche alla Coop Coostruzioni i soci votavano regolarmente, l’Assemblea dei soci e il CDA assumevano le scelte principali in tema di investimenti e di linee di sviluppo. Il tema vero è che è mancata una visione strategica, idee di rilancio del sistema”. Un punto che spiega quanto la sostenibilità del modello cooperativo, nell’epoca del dominio delle logiche di mercato, sopravvive solo se incentivato e rafforzato dalla mano pubblica, da un ruolo attivo delle istituzioni di governo. Non si tratta di fare il panegirico della cooperazione come “cinghia di trasmissione” e neppure di rimpiangere la “politica degli appalti” e l’alba dorata del movimento cooperativo nell’età giolittiana; si tratta solo di notare che l’egemonia del modello capitalistico può essere messa in discussione solo se si darà nuovo impulso a forme di programmazione economica aperte e flessibili al contributo di tutti gli attori in campo. A partire – come ricorda Maurizzi – “dalla funzione fondamentale del sistema della rappresentanza sindacale”.
Uno schema che può essere riassunto nella necessità di superare il paradigma della conservazione e dell’adattamento al sistema capitalistico, che ha contraddistinto le ultime fasi della vicenda del movimento cooperativo. Non è più pensabile oggi per la cooperazione mantenere saldi alcuni punti di forza in specifici segmenti produttivi, senza rilanciare una sfida più ampia all’intero modello di sviluppo.
Un tema che richiama con forza il ruolo della politica, in una città che si appresta ad andare al voto nella prossima primavera. “Incredibile – nota Maurizzi – che il tema di Coop Costruzioni, del modello di sviluppo, della cooperazione sia dimenticato dalle liste di sinistra che si presenteranno al voto”. Implacabile il paragone con il PCI, il partito della cooperazione e del lavoro, che sapeva saldare obiettivi di crescita e sviluppo con i diritti e la dignità del lavoro. “Che nostalgia – ammette Maurizzi – quando penso a quando, giovane delegato sindacale, sapevo di avere sempre le spalle coperte quando rilanciavo mesi di scioperi per richiedere la riduzione dell’orario di lavoro”. Il tempo in cui era palpabile la presenza di un referente politico del lavoro, in cui non era necessario ratificare un patto con il mondo dell’impresa per sapere che qualsiasi strategia di investimento privato non poteva eludere il tema dei diritti dei lavoratori.
E poi, c’è il rapporto tra sindacato e mondo cooperativo – perché la vicenda di Coop Costruzioni e i fallimenti dei grandi gruppi cooperativi degli ultimi anni, dalla Cesi al Coopsette, riguardano da vicino le debolezze del movimento dei lavoratori, la sua difficoltà ad esprimere una voce forte e autonoma, di costruire un fronte unitario contro l’offensiva padronale. La crisi del movimento cooperativo è la spia di una crisi più generale del sistema della rappresentanza del mondo del lavoro. “Io mi ricordo – afferma Maurizzi – che tanti anni fa, quando dovevamo organizzare una manifestazione a Roma, ero in grado da solo di assicurare tre pullman solo da Bologna, solo dai miei”. Sembra passata una vita, un secolo, quando il movimento cooperativo era considerato una componente centrale del movimento operaio e della capacità di incidere sugli assetti di governo dell’economia. Era il tempo in cui la cooperazione rappresentava il modello storico da contrapporre alle leggi dello sviluppo capitalistico.
Oggi, invece, ci restano quei 300 lavoratori: ombre scure che si allungano sulle luci del Natale, su una città che si appresta a celebrare le sue feste come nulla fosse, immersa nei riti eterni del consumo, in una enorme cappa nebulosa che copre tutto. Fumiamo l’ultima sigaretta prima di salutarci, quasi in silenzio. Lui torna in “montagna”, a Castel d’Aiano; io aspetto il primo treno per Modena. È sabato sera, ma nessuno di noi due se n’è accorto.