traduzione e testo introduttivo di Primo De Vecchis

Roberto Arlt (1900-1942) è uno dei più importanti scrittori argentini del Novecento. L’influenza che la sua opera ha esercitato sulle generazioni successive è stata enorme. I suoi romanzi più noti sono I sette pazzi (1929) e I lanciafiamme (1931), ma ha scritto anche numerosi articoli giornalistici, raccolti sotto il titolo di Acqueforti di Buenos Aires (1933). Tali pezzi descrivono con realismo grottesco la realtà sociale urbana tra il 1928 e il 1933 circa, in piena crisi economica. L’acquaforte è una sorta di genere misto, a metà tra il racconto breve e la nota di costume. Può parere anche un diario, ma non intimo, bensì pubblico, estroverso, dove lo scrittore dipinge individui della città, caratteri, personaggi spesso emarginati. Si tratta di bozzetti che presentano un tema ben preciso. Lo scrittore inoltre muove uno sguardo penetrativo sulle cose comuni che lo circondano (ma non in chiave epifanica) e per fare ciò cammina molto, perlustra come un cacciatore nella giungla d’asfalto i vari quartieri cittadini. Di certo qui Arlt si fa erede del flâneur di baudelairiana memoria, figura che nasce con l’esplosione del giornalismo e delle cronache d’appendice nell’Ottocento. Il brano qui di seguito tradotto, La tragedia dell’uomo che cerca lavoro, è stato pubblicato nel quotidiano «El Mundo» il 5 agosto del 1928. Il tema della disoccupazione diffusa nella grande città viene affrontato con un certo umorismo, non privo di empatia per la condizione di un nuovo ceto sociale, quello di coloro che sono rimasti ai margini della produzione capitalistica e che cominciano a provare indignazione, rabbia e frustrazione. Tali temi confluiranno anche nei suoi romanzi, dove si parla spesso di ‘pazzi’, ribelli, terroristi e manipolatori di deboli coscienze: un cocktail davvero esplosivo. Crediamo che Arlt sia un autore degno di essere riscoperto, soprattutto nell’attuale congiuntura socio-economica, che lo rende di nuovo attuale e ‘profetico’.
La tragedia dell’uomo che cerca lavoro
Chi avesse la salutare abitudine di alzarsi presto la mattina e prendere
il tram per andare al lavoro o farsi un giro, avrà osservato a volte il
seguente fenomeno:
L’ingresso di un negozio con la serranda semiaperta. Di fronte alla
serranda, e occupando il marciapiede e parte della strada, c’è un
grappolo di gente. La folla è varia in apparenza. Ci sono piccoli e
grandi, sani e storpi. Tutti hanno un giornale in mano e conversano
animatamente tra loro.
La prima cosa che viene in mente al viaggiatore inesperto è che lì si
sia svolto un delitto di fondamentale importanza, ed è tentato di andare
ad ingrossare il numero degli apparenti curiosi che fanno la fila di
fronte alla serranda, ma non appena ci riflette si rende conto che il
gruppo è formato da gente che cerca lavoro, e che è accorsa al richiamo
di un annuncio. E se è un osservatore e si sofferma all’angolo della
strada potrà osservare questo commovente spettacolo.
Dall’interno della casa semiblindata escono ogni dieci minuti individui
che sembra abbiano patito una delusione, poiché ironicamente volgono lo
sguardo a tutti coloro che li circondano, e rispondendo rabbiosamente e
in breve alle domande di costoro, si allontanano rimuginando il proprio
sconforto.
Ciò non fa svenire coloro che rimangono, poiché, come se l’accaduto
fosse un incentivo, cominciano a spingersi contro la serranda, e a darsi
pugni e pestoni per vedere chi riesce ad entrare per primo.
All’improvviso il più agile o il più forte sguscia all’interno e gli
altri rimangono a guardare la serranda, finché entra in scena un vecchio
impiegato dell’ufficio che dice:
– Potete andarvene, abbiamo già trovato qualcuno da assumere.
Quest’esortazione non convince i presenti, i quali allungando il collo
sulla spalla del rispettivo vicino cominciano a dire insolenze senza
ritegno e a minacciare di rompere i vetri del negozio. Allora, per
raffreddare gli animi, in genere un robusto portinaio esce con un
secchio d’acqua o armato d’una scopa e comincia a disperdere i
rivoltosi. Questa non è un’esagerazione. Già molte volte sono state
inoltrate delle denunce simili presso i commissariati di polizia su
questa procedura spiccia dei datori di lavoro che cercano impiegati.
I datori di lavoro argomentano che nell’annuncio cercavano espressamente
“un ragazzo di sedici anni per fare lavoro da scrivano”, e che invece
di presentarsi candidati di quell’età, lo fanno persone di trent’anni e
persino gobbi e guerci. E ciò è in parte vero. A Buenos Aires “l’uomo
che cerca lavoro” è arrivato a formare un tipo sui generis. Si può dire
che quell’uomo ha l’occupazione di “essere l’uomo che cerca lavoro”.
L’uomo che cerca lavoro è di frequente un individuo che oscilla tra i
diciotto e i ventiquattro anni. È un buono a nulla. Non ha imparato
nulla. Non sa fare nessun lavoro. La sua unica e meritoria aspirazione è
quella di diventare un impiegato. Rappresenta il tipo dell’impiegato
astratto. Egli vuole lavorare, ma lavorare senza sporcarsi le mani,
lavorare in un posto dove si usi il colletto; infine, lavorare “ma
intendiamoci… decentemente”.
E un bel giorno, un giorno lontano, se prima o poi arriva, lui, il
professionista nella ricerca del lavoro, si “sistema”. Si sistema con il
salario minimo, ma che gli importa. Ora potrà avere la speranza di
pensionarsi. E da quel giorno, calafatato nel suo angolo burocratico
aspetta la vecchiaia con la pazienza di una remora.
La tragedia è la ricerca di un lavoro nelle attività commerciali.
L’offerta è arrivata ad essere così straordinaria, che un commerciante
nostro amico ci diceva:
– Uno non sa quale impiegato scegliere. Arrivano con certificati. Sono imbattibili. Comincia allora l’interrogatorio:
– Lei sa scrivere a macchina?
– Sì, centocinquanta parole al minuto.
– Lei se ne intende di stenografia?
– Sì, la pratico da dieci anni.
– Lei se ne intende di contabilità?
– Sono un ragioniere pubblico.
– Conosce l’inglese?
– E anche il francese.
– Può offrirci una qualche garanzia?
– Fino a diecimila pesos delle seguenti ditte.
– Quanto vuole guadagnare?
– Ciò che lei è abituato a pagare.
– E il salario che si paga a queste persone – ci diceva il suddetto
commerciante – non è mai superiore a centocinquanta pesos. Duecento
pesos li guadagna un impiegato con anzianità… e trecento… trecento è
qualcosa di mitico. E ciò si deve all’offerta. Ci sono farmacisti che
guadagnano centottanta pesos e lavorano otto ore al giorno, ci sono
avvocati che sono scrivani di procuratori, procuratori che pagano loro
duecento pesos al mese, ingegneri che non sanno che fare con il proprio
titolo, dottori in chimica che imbottigliano campioni di importanti
drogherie. Non sembra vero, ma è così.
L’interminabile lista degli “impiegati offresi” che si legge tutte le
mattine sui giornali è la prova più lampante della tragica situazione
nella quale vivono migliaia e migliaia di persone nella nostra città. E
queste trascorrono gli anni cercando lavoro, spendono quasi un capitale
in tram e francobolli offrendosi, e niente… la città è piena di
impiegati. E tuttavia al di fuori c’è la pianura, ci sono i campi, ma la
gente non vuole uscir fuori dalla città. E sia chiaro, finisce così
tanto per abituarsi alla mancanza di lavoro che comincia a costituire un
gruppo, il gruppo dei disoccupati. Manca loro solo la personalità
giuridica per arrivare a formare una delle tante associazioni originali
ed esotiche delle quali parlerà la storia futura.